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Un disco come questo, credo, può suscitare solo due reazioni: amore incondizionato, oppure irritazione. Intendiamoci: “4-track demos” è senza dubbio un episodio minore della discografia di Polly; il gioco è quello proposto già all’epoca di “Dry”, quando uscì un cd in tiratura limitata (“Demonstration”, ormai introvabile) con tutte le canzoni dell’album proposte in versione demo. La stessa idea viene riproposta anche per “Rid of me”, anche se in veste un po’ più ufficiale: troviamo le versioni grezze di alcuni brani, e in più anche sei inediti, di valore diversissimo tra loro.
Ciò che irrita di più di questo disco è proprio il fatto di aver presentato brani irreperibili altrove in versioni tremende, registrate su un 4 piste e senza nemmeno un minimo lavoro di produzione; ora, questo può anche starci se si tratta dei demo, ma perché mai mi dovrei accontentare di una canzone meravigliosa come “Hardly wait” in questa versione grezza, sporca e cantata da Polly alla meno peggio?
I brani già noti non presentano variazioni significative, a parte il fatto che ad essi è stato tolto il supporto ritmico di basso e batteria: il battito di “Rid of me” è accelerato, e il controcanto che ripete ossessivamente “lick my legs” emerge più nettamente; le nuove “Legs” e “Snake” si sporcano di (auto)ironia, nei colpi di tosse e nell’esagerazione orgasmica nei momenti più ricchi di pathos. Qua e là emerge più nettamente l’ascendenza blues delle canzoni, soprattutto in “50ft queenie” (penalizzata dall’assenza della batteria) e nella versione di “Ecstasy” alleggerita del lungo finale. L’unico brano che si fa ricordare anche in questa nuova versione risulta così essere solo “Rub ‘til it bleeds”, con un ritornello di potenza davvero devastante.
Gli inediti, probabilmente scartati da “Rid of me” per scarsa congruenza con le atmosfere di quell’album, sono di valore molto diverso: nessuno inserirebbe mai “Easy” o “M – bike” tra le migliori canzoni di PJ, anche se non sono malvagie (anzi, sono addirittura ironiche!); “Driving” si appoggia su una musica stranamente calma, e su un testo all’opposto inquieto (“immaginatevi di sentirvi pieni di luce/ la vostra voce che risuona/per tutta la maledetta città”). I momenti migliori si chiamano”Reeling” e “Goodnight”: il primo è il pezzo più atipico, un testo delirante, una tastiera psichedelica a stravolgere il canto stridulo; l’altro è un bellissimo blues attraversato da scariche elettriche improvvise, con Polly a cantare immagini serene ma piene di rimpianti. “Hardly wait” è un incanto, una splendida dimostrazione di cosa questa donna sa scrivere (“Dico:”Vieni,angelo”/ dico “lecca il mio viso”/…/nella mia bara di vetro/sto aspettando”).
Un’occasione persa, insomma: perché un disco così bello è stato trattato con così poca cura dalla sua stessa creatrice?
(Daniele Paletta)
24 Giu 2002