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Kazu e i gemelli Pace devono aver consumato i dischi dei Knife e, più di tutti, quello di Fever Ray. “Penny sparkle” nasce dallo stesso produttore, dalle identiche ossessioni dark-wave; vive di tastiere e pad più che di chitarre. Eppure, il risultato finale non potrebbe essere più diverso: se Karin Dreijer Andersson ha usato quei suoni sintetici per trasformarli in un tessuto percussivo oscuro, quasi tribale, partendo dagli stessi elementi i Blonde Redhead, al contrario, hanno trasformato il dream-pop dell’interlocutorio “23” in un suono ancora più soffuso di prima, denso eppure immateriale.
“Penny sparkle” è un disco fatto di riverberi e di presenze fantasmatiche, di sussurri che si rincorrono e scompaiono all’improvviso: il suo suono è gelido, eppure abitato. I Blonde Redhead non si erano mai spinti così lontani dalle loro origini: chi, sentendo gli stridii dei loro primi dischi, avrebbe pensato che i riferimenti più calzanti per un pezzo come “Will there be stars” sarebbero state le produzioni di Trevor Horn, con quella batteria elettronica simile a una frustata?
Eppure, qualcosa non torna. Il punto è che la scrittura del trio, la struttura delle loro canzoni, non è mai cambiata molto; e così, questi suoni per loro nuovi finiscono più per assomigliare a una riverniciatura di melodie già sentite che non di un vero e proprio passo verso direzioni diverse. Quello che, nell’intenzione dei Blonde Redhead, doveva essere il loro disco più oscuro, finisce per essere quello più patinato e lezioso; i synth soffocano talmente le canzoni, e la voce di Kazu (mai così monocorde) spadroneggia così tanto, che una piccola gemma di chitarre gentili come “Everything is wrong” o la cadenza nasale della voce di Amedeo in “Black guitar” arrivano come un vero e proprio sollievo.
“Penny sparkle” voleva essere l’anatomia della fine di un amore, il suo ricordo sognato; e invece, ahimè, finisce per essere tremendamente piatto. Non malriuscito, per carità: solo molto noioso.
65/100
(Daniele Paletta)
30 settembre 2010