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Il 1980 segna una mutamento radicale nell’organico della band: Barlow, Evans e Palmer abbandonano. Al basso troviamo Dave Pegg dei Fairport Convention. Con l’ausilio di Eddie Jobson alle tastiere e Mark Craney alla batteria viene realizzato “A”, in cui la virata al pop elettronico di moda è ormai un fatto compiuto.
Il nuovo indirizzo viene sostanzialmente ribadito da “The Broadsword And The Beast”, disco di elettro-folk che vede la presenza di Peter John Vettese al sintetizzatore e al piano e di Gerry Conway alla batteria. Che possiamo dire? Anderson prosegue imperterrito, sfornando canzoni che non dicono più nulla di nuovo e ben poco di interessante.
Qualche fugace spunto piacevole si può ancora trovare, almeno quando il sintetizzatore non mostra il lato più corrivo degli ’80, evidente in una canzone come “Flying Colours” sotto tutti i punti di vista, ritmico e melodico: soprattutto impressiona l’inizio tastieristico, dalla sonorità tipica del decennio, come mostrerà di qui ad un paio d’anni la fortunata “Jump” dei Van Halen.
D’altra parte bisogna ammettere che, benché frutto di un’adesione sostanzialmente di convenienza alle tendenze contemporanee, l’opera risulta nel complesso – dal punto di vista strutturale – più coerente e compatta, meno incerta, rispetto ad un disco di transizione come “Stormwatch”; sforzandosi di ignorare che si tratta dei Jethro Tull e pensando unicamente in modo sincronico, appiattendo la storia del gruppo all’anno 1982, qualcuno potrà persino gustarsi questa musica e, con il passare del tempo, rivalutarla almeno in parte. A noi, però, questa operazione riesce – e probabilmente riuscirà sempre – alquanto difficile.
In conformità allo stile la chitarra acustica recede fin quasi a scomparire, mentre il trattamento di quella elettrica si adegua in pieno.
La brevissima e conclusiva “Cheerio”, nel recupero di atmosfere fiabesche popolari, fa rialzare per un attimo la testa all’ascoltatore.