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Dieci, cento, mille, centomila, milioni, miliardi di questi Daniel Johnston: il più strampalato autore di musica che questi tempi pure così strampalati – e con tutti che sperano di essere etichettati come freak, dimentichi del valore intrinseco dell’epiteto – ci hanno regalato torna a dire la sua, a tre anni di distanza dal giustamente osannato “Fear Yourself”. La formula, come avrete intuito se avete anche solo una vaga idea di che tipo sia il personaggio di cui stiamo parlando, non è assolutamente cambiata: Johnston prende di petto il gotha della melodia rock e, dopo un viaggio iniziatico che non augurerei neanche al mio peggior nemico, lo trasforma in qualcosa di talmente personale da lasciare stupefatti. Buona parte della critica musicale storce il naso di fronte all’apparente naiveté messa in mostra da questo quarantacinquenne obeso e sgraziato, accusandolo di essere solo un figlio dei nostri tempi, idolatrato perché mostra la faccia nascosta della società capitalistica pur senza volerlo. Effettivamente ad andare a spulciare i brani che Daniel compone si ha forte l’impressione di essere passati dall’altro lato dello specchio come la Alice di carroliana memoria: la melodia si fa deformità, l’assonanza putiferio, la spensieratezza ha il ghigno malefico dello Stregatto.
Ma la verità è che non siamo in nessun paese delle meraviglie, siamo solo di fronte a una musica impossibile perché, e pensateci bene, semplicemente è impossibile che sia stata composta musica del genere. Rock’n’roll, Pop, Blues, Country: la musica popolare americana è tutta qui, riletta da un uomo che non sai mai se sta facendo sul serio o ti sta semplicemente ridendo alle spalle. Ma, sopratutto, tu puoi pensare di star ridendo con lui? O forse dietro quella facciata saltellante e priva di preoccupazioni (come in “The Beatles” o “Lonely Song”) si nasconde il volto perso e tenebroso di un uomo sconfitto dalla stessa esistenza che cerca vendetta attraveso i canali del popolare, del massificato, del mercato? È la sua voce a restare il mistero più fitto, il codice che nessuno è riuscito ancora a svelare: così impura, tremante, inadatta, dispersa, flebile eppure capace di prendere con sè un brano dalla struttura standard che più standard non si può e trasformarlo in un inno senza tempo. Il suo è romanticismo post-moderno, la materia viene rielaborata per diventare parte di un percorso umano che ha su di sè cicatrici dolorosissime e che te le comunica sempre con il sorriso sulle labbra, trascinandoti in breve alle lacrime. Prendete come esempio “Squiggly Lines”: la musica va da una parte e lui con la sua voce si ritrova in tutt’altro luogo. All’inizio ridi, divertito da un così evidente squilibrio armonico ma ben presto quell’anomalia inizia a tracimare via, conducendoti alla disperazione. Una canzone sconfitta in partenza – perché nega la stessa regola di “canzone” – che si trascina con le ultime forze in un mondo che non le appartiene, che non può appartenerle, che non la capirà mai fino in fondo. Eppure, forse, neanche Johnston è consapevole di questa condizione e canta ciò che gli è più caro con le armi che possiede, incurante di ciò che gli si agita intorno.
Quale che sia la vera faccia di questo autore imperdibile al contempo inafferrabile, che la sua scelta sia più o meno consapevole, io continuerò a implorare dieci, cento, mille e via discorrendo di questi Daniel Johnston, perché il mondo musicale è più ricco grazie a menti come le sue. Che potranno anche essere rinchiuse in manicomi (come avviene spesso nel caso in questione) ma hanno trovato il modo di essere semplici ed eterne. E allora tanto di cappello…