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Ed arriva anche il momento della prima avventura sulla lunga distanza per la Juniper Band, dopo l’EP di debutto “…Of Debris and Daylong Dreams”, uscito l’anno scorso sempre per la Suiteside. Le buone impressioni lasciate nel lavoro precedente raggiungono qui piena maturità, il suono si fa più corposo, più ricco, ampliando gli intrecci e le derivazioni musicali.
Se in precedenza era possibile notare allacci alla musica dei Motorpsycho, dei R.E.M. degli esordi e degli Air, ora l’ago della bilancia si sposta decisamente verso i territori anglosassoni. Alle spalle del progetto si erge infatti il “monolito Radiohead”, le cui influenze riecheggiano soprattutto in episodi come l’iniziale “A Tale of Holy Devotion”, splendida ballata che riporta alla mente la band oxfordiana del periodo “The Bends”.
Anche nella delicata “Part of the Play”, pacificante ed eterea, si nota l’influenza della scena anglosassone, anche se ormai il suono della Juniper Band è perfettamente riconoscibile. La scelta di far vivere i brani sulla sottile linea che divide la calma dal furore dà forza a “Boon”, mentre “Ride, Dead” parte da un delicato arpeggio pianistico per approdare ad una chitarra fluida che ha al suo interno reminiscenze di Pink Floyd, Motorpsycho e Sonic Youth, fino a tornare, come in un cerchio alla Moebius, al principio. Decisamente un piccolo pezzo di cielo.
Maggior irruenza arriva con “Jaded Strings”, dove fa capolino l’indie rock statunitense – tra l’altro in versione semi-acustica, ad acuire i rimandi a band come i Lullaby for the Working Class -. La batteria dà il la a “Ghost Sign”, uno dei vertici dell’album, brano strumentale nel quale i giochi ad intreccio delle chitarre raggiungono lo zenith, accompagnate con trasporto dal resto degli strumenti (una menzione particolare la meritano le tastiere di Alessandro Cavalli, new entry nella line-up della band).
Di grande effetto la performance di Thalia Zedek, già nei Come, che dona la sua voce a “Lights from a Bar”, a metà fra la dolcezza di una ninnananna e lo straniamento di una perdita di senso del tempo e dello spazio.
I quasi otto minuti di “Twin Dreams of Seen and Seem” mostrano una band consapevole della strada da intraprendere e capace di percorrerla senza sbandamenti, con un riff ossessivo nelle strofe che diventa nuovamente perdita di coscienza fino a sfiorare, in un paio di passaggi, territori prog. Ma l’ossessività rischia di prendere nuovamente il sopravvento e allora arriva la seconda parte del brano, più decisa, dura, rabbiosa; passata la tempesta, tornano le chitarre fluide mentre le tastiere disegnano paesaggi lisergici, destinati a sfumare nuovamente nel riff di chitarra che chiude il tutto.
La rabbia appena accennata nella precedente canzone è invece la ruota motrice di “Sunwards”, immediata e distorta – ma ancora sorretta da intrecci affatto semplici o banali -. A chiudere quest’album sorprendente, la calma pacificante di “Trier and Trias”, aperta da armonica e tastiere, sorta di delicato saluto, ninnananna della buonanotte.
Ora che il mondo della Juniper Band inizia a definirsi con più nettezza e precisione, lascia intravedere un futuro splendente. Uno dei migliori album dell’anno, sicuramente.