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Caso umano troppo umano: Aki Kaurismaki e Fredrich Nietzsche docent. La piccola orchestra finlandese dei Leningrad Cowboys è in giro ormai da più di 20 anni. E hanno fatto tutto quello che c’era da fare, dal culto alla paraculata. Sono stati protagonisti del cinema di Kaurismaki, hanno venduto milioni di dischi riproponendo vetuste canzonacce russe, coverizzando “What is Love” di Haddaway, dato vita al leggendario Global Balalaika Show (insieme al coro dell’Armata Rossa), prodotto album originali come “Terzo Mondo”, cretinate pseudo-metal come “Zombie’s Paradise” e fatto un sacco di soldi con la cover di “Happy Together”, ascoltata in tutta Europa a commento sonoro di una famosa compagnia telefonica che inizia con “V” e finisce con “dafone” (nome che nascondo per non fare pubblicità e per non incappare in noie legali, che l’acqua è poca e la papera non galleggia).
Oggi tornano con un nuovo album di studio intitolato “Buena Vodka Social Club”, edito dalla SPV. Ma siamo nel 2011 e dal 1989 sono cambiate molte cose. Il ciuffone a banana non è affatto più ridicolo e inconsueto come un tempo, anzi i tamarri per strada ne ostentano declinazioni ancora più estreme: ho visto certe cose in giro veramente impressionanti. L’estetica rockabilly si è super inflazionata, in tutti i sensi possibili e immaginabili. Essere la band peggiore del mondo, in fine, non sembra più così affascinante o necessario: gli anni ’10 cercano la band più “media” del mondo, questo è il vero traguardo ideale, sottaciuto e concreto della nostra età. I migliori e i peggiori sono banali e sostanzialmente fuori dal target dell’estetica del ritorno al realismo. Detto ciò, veniamo a questo “Buena Vodka Social Club”.
Il disco è una compilation di divertenti ballate rockettare, tutte originali (come non succedeva dal 2000), che si muovono tra un estremo heavy, paragonabile al tenore di “Load” dei Metallica, e uno pop, vicino alla poetica dei Wham! C’è molta maniera e molto casino in fase di arrangiamento. Chitarre, trombe, tromboni, tastieracce e coretti stratificano un suono sull’altro senza molto ordine o utilità. I Cowboys giocano con vari generi e influenze, citano, rubano, parodizzano, fanno i cretini. La loro musica funziona abbastanza quando sfruttano melodie e ritmi slavi o bardici (come in “Machine Gun Blues”, “Drill a Hole”, “Rock ‘n Roll Show” e “Frijoles Y Lager”), meno riuscite appaiono invece le contaminazioni “latine” o southern (“Gasolina”, “I Kill The Dog” e la desertica “Wash Your Ass”). A completare il guazzabuglio intervengono il solito rockabilly di “Gimme Your Sushi” e la crepuscolare “Mule”. La goliardia è incontrollata e la stupidità sostenuta e curata come senso principale e ispiratore.
Probabilmente a fare sempre gli scemi si perde smalto e le scemenze, col passare degli anni, appaiono inesorabilmente affettate e artificiose, noiose. È questo il problema intrinseco della produzione: non è abbastanza cretina, non come ci aspetteremmo, e naturalmente non ha nulla di serio. E per questo risulta insipida e dappoco. Un po’ come la vodka prodotta in Italia (i nostri bar sono pieni di queste due bottiglie, una il cui nome inizia per “A” e finisce per “tic” e l’altra che inizia per “K” e finisce per “glevich”, nomi che non cito completamente sempre per non fare pubblicità e sempre per non incappare in noie legali, che l’acqua è sempre di meno e la papera è un sasso che va a fondo), che al mio palato, fondamentalmente, non sa di niente. E allora che dire? Che c’ho voglia di un vodka tonic o di un vodka gimlet. Non sapete cos’è un vodka gimlet? È perché siete dei piscitielli di cannuccia. Non sapete cosa sono i piscitielli di cannuccia? Ve lo spiegherei pure, ma poi si capirebbe che sto allungando il brodo con domande leggermente inutili e che su questo disco davvero non so che dire… E la mia professionalità non me lo permette.
40/100
(Giuseppe Franza)
28 ottobre 2011