Share This Article
Jesse Malin ha quella faccia lì. Quella che ti guarda dalla copertina di ogni suo disco: dall’esordio “The fine art of self destruction”, magnifico tesoro sommerso, al successivo, non di molto inferiore, “The heat”. La leggi in quegli occhi, la percepisci da quei capelli sparati da ragazzino scalmanato la storia di uno che ha militato in una glam/punk band nella Grande Mela degli anni ’90, per poi votarsi al cantautorato servendosi inizialmente dell’aiuto dell’amico Ryan Adams.
La stessa faccia campeggia sulla copertina di “Glitter in the gutter”, solo che stavolta il ragazzo sembra quasi un uomo. E invece dall’ascolto emerge prepotente l’anima di un eterno fanciullo (“misunderstood like Robin Hood and Peter Pan”, canta il nostro nell’energica “Little star”): “Glitter in the gutter” è decisamente il più sbarazzino degli album di Jesse Malin. Nonché il più punk: chitarrone e brevitas caratterizzano infatti molti pezzi della scaletta, tra cui “In the modern world” e “Prisoners of paradise”. I numi tutelari, mai celati, questa volta vengono chiamati in causa ancora più direttamente, per mezzo di una cover pianistica di “Bastards of young” dei Replacements e della presenza di Bruce Springsteen nella ballata “Broken radio”. Quando veste i panni a noi più conosciuti del cantautore armato di acustica, Malin non smette di convincere: anzi, forse la forza di questo album risiede proprio in pezzi come l’iniziale, cantabilissima “Don’t let them take you down” (titolo omaggiante Neil Young?), o una “Happy ever after (since you’re in love 2007)” che condisce una strofa smaccatamente rock con un ritornello decisamente pop.
Una piacevolissima conferma, che ci fa sperare di rivedere spesso quella faccia, mentre ci squadra dalla copertina di un album di Jesse Malin.