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Non capita poi così spesso di poter ragionare su un album partendo dalla storia del proprio paese: si dice che l’italiano medio ha molta poca memoria storica, e sembrerebbe vero a giudicare dai vergognosi striscioni che compaiono settimanalmente sugli spalti dei nostri stadi di calcio (anche se la nuova legge sportiva, dopo il mastodontico “Roma è fascista!” apparso all’Olimpico durante Lazio-Livorno – appropriazione indebita di un sentimento cittadino che si è sempre dimostrato anzi profondamente antifascista – dovrebbe limitare i danni, reprimendo) e dalle aberranti conclusioni politiche a cui giungono i rappresentanti del governo spesso senza essere purtroppo smentiti da chi di dovere.
Hanno provato a far credere a tutti che equiparare partigiani e repubblichini fosse simbolo di democrazia quando non si tratta altro che di bieco revisionismo; come dicevano Fenoglio prima e Ferretti poi in quel caso fu necessario “scegliersi una parte” e chi scelse quella sbagliata – perché il nazi-fascismo non può meritare appello in nessuna sede legale – non può permettersi una riabilitazione così semplice. Hanno provato allora a depistare l’uditorio affermando che la memoria partigiana era un nostalgico retaggio comunista e come tale era logico sminuirne l’importanza quando a partecipare alla lotta di liberazione per l’Italia e a morirne sui monti furono comunisti, socialisti, democristiani, liberali, repubblicani, anarchici e chi più ne ha più ne metta.
Forse la realtà sta nel fatto che sarebbe stato doveroso affermare nella Costituzione “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e sull’antifascismo” onde evitare fraintendimenti. C’è chi dice che l’apologia di fascismo dovrebbe essere tolta dai reati del codice penale, affermando che la democrazia accetta qualsiasi parere politico che non sia espresso con violenza. Ma chi, in uno slancio di cecità, si fa portavoce di questo modo di pensare dovrebbe ricordare anche come sia il fascismo sia il nazismo si siano sempre e solamente mostrati sotto l’aspetto totalitario e antidemocratico – e, per zittire chi sta già per prendere parola, al contrario del comunismo che è stato parte fondante, nell’Europa Occidentale del secondo dopoguerra, del processo di evoluzione democratica.
Ok, è vero, dovremmo parlare di musica qui: ma dopotutto un album come “Appunti Partigiani” licenziato dai Modena City Ramblers musicalmente non propone nulla di particolarmente originale. C’è l’ennesima rilettura della sempre commovente “Bella ciao”, qui in una versione circense grazie all’apporto di Goran Bregovic, c’è una “Oltre il ponte” interpretata in maniera sommessa e dolente da Moni Ovadia, c’è Guccini che rifà se stesso nell’interpretazione di “Auschwitz”, c’è la Bandabardò che rifà il canto partigiano “I ribelli della montagna” già portato sugli altari in un’ottima versione dagli Ustmamò per il concerto del cinquantenario della liberazione organizzato dai C.S.I. e racchiuso nella compilation “Materiale Resistente”, c’è il De André di “La guerra di Piero” affidato a una voce non certo indimenticabile di Piero Pelù e ad ammalianti ritmiche acustiche, c’è l’immancabile Coro delle Mondine di Novi di Modena, c’è addirittura il sempre mitico Billy Bragg alle prese con i country-rock ai limiti dell’inno punk in “All You Fascists” dal repertorio di Woody Guthrie (quello che parlando della propria chitarra affermò “This Machine Kills Fascists”).
Dopo la Bandabardò c’è spazio per un altro gruppo toscano, gli aretini Casa del vento che rileggono la loro ballata “Notte di San Severo”; la presa di coscienza politica passa ancora attraverso collettivi? Forse, se è vero che c’è modo di imbattersi anche nei Gang. I Modena City Ramblers si limitano a un solo inedito, chiaramente ispirato al romanzo d’esordio di Calvino, quel “Il sentiero dei nidi di ragno” che fece inserire erroneamente il nome del giovane letterato tra gli autori neorealisti; dopo Calvino ecco Fenoglio rivivere in “Il partigiano John” del repertorio Africa Unite – qui è presente il solo Bunna -. Ci sono poi gli interventi di Fiamma, una schizoide “Spara Jurij” a cui partecipa Paolo Rossi e che diventa danza balcanica perdendo il furore punk ma non l’ideologia dissacrante e crudele, la “Pietà l’è morta” di Nuto Revelli con Ginevra di Marco a far da contrappunto per chiudere tutto sulle note di “Viva l’Italia” di Francesco De Gregori, che diventa canto collettivo in cui far confluire quasi tutti gli ospiti di questa kermesse – operazione che sinceramente riporta alla mente più la dylaniana “Death is not the End” posta in chiusura di “Murder Ballads” di Nick Cave che i canti di lotta del tempo che fu -. Insomma un’iniziativa che non può e non deve essere giudicata sotto il punto di vista strettamente musicale perché porta con se significati ben diversi.
Significati che, in un’epoca storica come la nostra, possono anche risultare fondamentali. Per non dimenticare che dal 1922 al 1943 vivemmo sotto una dittatura fascista dove i dissidenti venivano in un modo o nell’altro ridotti al silenzio – e non semplicemente “mandati a farsi una gita al confino” come sornione affermò Silvio Berlusconi un anno e mezzo fa – e che dal 1943 al 1945 l’Italia fu occupata dalle truppe nazi-fasciste, e gli italiani lasciati allo sbando dal re e da Badoglio (rifugiatisi in Puglia) decisero di affiancarsi alle truppe alleate lottando sui monti, riunendosi in brigate. E per non dimenticare che decine di migliaia di questi uomini e donne morirono per la libertà e la democrazia del nostro piccolo paese a forma di stivale. Persone che meriterebbero ben più rispetto di quanto ricevano attualmente dalle nostre istituzioni e le cui voci, tra un brano e l’altro, abbiamo modo di ascoltare su “Appunti Partigiani”. Grazie doppio stavolta – ai MCR per l’iniziativa e ai Partigiani, senza dover dare motivazioni retoriche.