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Gli Standards sono un gruppo che preferisce avvolgerti piuttosto che colpirti dritto in faccia. Intrecciano trame lente e sinuose, figlie dell’indolenza di Red House Painters e Codeine, oltre a cercare sorprendentemente l’ispirazione in certi suoni pop anni ’80, come le tastiere che punteggiano tutto il disco.
Qualche scossa arriva all’improvviso e non sempre è un bene. Perché se “The Five-Factor Model” è un brano felicemente spezzato in due parti, tra un inizio aspro ed incalzante e un finale disteso, in qualche altro caso il risultato è tutt’altro che convincente. Il peggio arriva con i suoni sopra le righe di “Behind the Screens”, in cui è tanta l’enfasi fuori luogo da poter ricordare un brano dei Muse più irritanti.
Fortunatamente è un altro lo spirito del disco. Infatti “August”, il secondo lavoro del gruppo americano, ha un cuore malinconico fatto di canzoni lunghe e quiete, di scatti nervosi, di istanti affascinanti. A partire da “A Year of Seconds”, un inizio in punta di piedi che si svela poco a poco, e proseguendo poi con i suoni liquidi di “Paper”, una ballata come potrebbero scriverla i Tortoise, se mai decidessero di farlo. Qualche asprezza affiora in brani più complessi come “Bells to the Boxer” e “When Everything Went North”, che alternano nel migliore dei modi silenzi e interessanti passaggi di chitarra, prima di approdare alla dolcissima ballata pianistica che sigilla il disco, intitolata “The Quiet Bar”.
Riuscendo ad evitare qualche caduta di stile gli Standards potrebbero diventare un gruppo su cui contare. Per ora convincono a sprazzi.