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In un anno che ha già registrato per il cosiddetto “indie” italiano una trafila di ottime quando non eccellenti uscite discografiche (con cui faremo i conti nelle graduatorie di fine anno), arriva a paracadutarsi nelle nostre menti il brillante esordio dei bolognesi My Awesome Mixtape. Si era già potuto apprezzare questa band qualche mese fa, quando la netlabel Kirsten Postcards aveva messo in rete l’ep di quattro tracce intitolato “Songs of Sadness, Songs of Happines”, un esile e gualcito quadernetto di esercizi elettronici casalinghi in grafia pop a tratti fulminante (soprattutto “Amiga” e “The Giant Squid”) e finalmente arriva il disco vero e proprio, che amplia e approfondisce quanto di buono si era già potuto intravedere, anche alla luce delle numerose collaborazioni documentate dai credits: membri di Settlefish, Giardini di Mirò e Le Man Avec les Lunettes tra gli altri.
Le associazioni e i riferimenti più immediati che germogliano in mente vanno in direzione soprattutto di Postal Service, Junior Boys, Hot Chip, Lali Puna, Four Tet, l’ultimo Yorke, Kraftwerk, Talk Talk, Stereolab, Broadcast, Air, New Order, Radio Dept. e tutto il nutrito arcipelago Morr (di cui mi permetto di consigliare, molto lateralmente, il recente omonimo disco dei People Press Play, una vera delizia!). Schegge di pop vetroso dalla forma variabile: più rarefatti i tempi di “Love on cabin class”, con il suo respiro trattenuto in un’interminabile apnea e il passo felpato delle partiture ritmiche che affondano nella neve mordila e spessa di cori lontani. E se in “The Saint Valentine’s day massacre” la chitarra e un lavorio più vivace dei sinth impastano rapidissime nuvolette di vapore condensato, in “Diderot” quello stesso vapore sintetico alita una brina croccante di battiti e crepitii su cui il dito di una sottilissima intelligenza pop (molto eighties, per altro) ricama le sue zampettanti ortografie immaginarie. Sin dalla copertina quest’album è tutto un ritagliare sagome di soldatini in cartoncino con forbici fantasiose e un piglio sempre molto domestico e artigianale, con esiti più che convincenti in un pezzo come “I’ve lost my language”, dove il disegno melodico si dispone con il rigore meticoloso di una piccola armata napoleonica.
“Napalm on B*** G***” segue la geografia precisa di una fiocco di neve perfettamente simmetrico che si scioglie in bocca dopo nemmeno tre minuti, in “Hilarius” invece gli effetti e le coloriture più acide e disturbate dei sinth si schiudono a poco a poco come una pagina accartocciata in un ritornello tribaleggiante. A dominare è comunque quasi sempre il bianco terso di un inverno geometrico e compatto, che piccoli starnuti ritmici e melodie virali si divertono a increspare (come in “What a stranger Supposition”) con i loro raffreddori e le loro impercettibili alterazioni febbrili, sfiorando in “The Loser Ballad” esiti di trasecolato impressionismo shoegaze, come spesso accade in certo glitch pop e musiche affini.
Se un limite deve essere trovato, esso risiede forse nell’eccessivo pegno che le composizioni a volte pagano nei confronti di una certa staticità e di un certo isolazionismo minimale che spesso ha il sapore di un scombinato monologhetto solipsista: forse certi elementi pazzoidi andrebbero ulteriormente esacerbati e movimentati, rimpolpando di dettagli e sfumature una trama un po’ troppo essenziale e liscia come un piccolo igloo. Il disco svolge comunque bene il suo lavoro.