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Non tutto il male, si dice, viene per nuocere. Aver aspettato così tanto prima di parlare dei National e del loro ultimo album mi ha permesso di vederli prima dal vivo, così adesso mi posso sbilanciare: non sono il solito gruppo da hype passeggero, quello che tocca le band di area newyorchese che si vuole eredi o reincarnazioni di chi calcava quelle scene trent’anni fa, campioni di una new-qualcosa che sa sempre più di minestra riscaldata. Solo un ascolto molto superficiale potrebbe collocare i National sullo stesso carrozzone di Interpol e compagnia cantante, anche guardando solo ai dettagli insignificanti (adesso la loro casetta musicale ce l’hanno a Brooklyn, ma non portano maglie attillate a righe e non stanno con attrici di Hollywood).
Certo, qua e là il tono basso della voce di Matt Berninger può ricordare Ian Curtis (“Mistaken for Strangers”), ma di questi tempi dire che una band ha qualcosa dei Joy Division è come dire che usa le chitarre. C’è molto altro: l’ombra di Leonard Cohen si allunga sul modo in cui le storie crude e decadenti di Matt rotolano dolcemente sugli arpeggi acustici dei fratelli Dessner (“Green Gloves”, “Start a War”, “Racing Like a Pro”); l’invocazione spezzata e senza dio di “Squalor Victoria” riporta alla memoria la mistica corrotta di Nick Cave.
I National del resto sono anche molto americani, e guardano al più citato e amato singer-songwriter statunitense, almeno da quelli della loro generazione, cioè Bruce Springsteen. Lo ricordano nel modo di raccontare storie di ordinaria deriva, come quelle che il Boss snocciola dai tempi di “Nebraska”: la differenza sta nel fatto che Berninger e compagni non sono cresciuti nelle pieghe dell’America industriale, sudando nelle fabbriche e ai lati delle autostrade in costruzione, ma hanno conosciuto da dentro l’alienazione dei “colletti bianchi” durante l’esplosione della New Economy a cavallo tra i due secoli. Nelle canzoni dei National la gente si attacca alle prerogative della paga, della posizione sociale, della rispettabilità pubblica e professionale come ad appigli per non affondare dentro il vuoto etico della società che li circonda, per non vedere che sotto c’è l’oscurità, la violenza, il sopruso.
La grandezza di “Boxer” sta però nel non essere un album apocalittico, di grandi proclami: è cupo eppure pacificante, straordinariamente intenso ma leggero come il fumo di una sigaretta alla fine di una storia, di una battaglia, di un pezzo di vita vissuta. I suoni sono morbidi, coesi, il passaggio dalle ritmiche martellanti di matrice new wave alle aperture di pianoforte e violoncello sembra naturale. Rispetto al precedente “Alligator” manca forse lo slancio di energia di brani come “Abel” o “Mr. November”, ma nel complesso “Boxer” è un’esperienza unica e suggestiva, di quelle che ti fanno pensare che dopotutto il formato album ha ancora ragione di esistere. Le storie di alienazione metropolitana e vagabondaggi notturni dei National sono fiabe della buonanotte senza lieto fine che uno vorrebbe farsi raccontare all’infinito.
85/100
(Stefano Folegati)
24 dicembre 2007