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Una chitarra insegue una nota, ostinata e gentile. E poco a poco, tutti gli altri strumenti la circondano, riempiono l’aria: ogni cosa è semplice, ma tutto è cesellato con la stessa cura che uno scultore metterebbe nel realizzare una piccola statuina di legno. “Folios”, la canzone che apre silenziosamente il nuovo album dei New Year, è un esempio perfetto di ciò che i fratelli Kadane hanno fatto fin dai tempi dei Bedhead. Non musica, ma intaglio: ogni nota è un gesto di bilanciamento da sommare a mille piccoli movimenti simili.
E appare tutto naturale da superare i primi ascolti senza lasciare traccia. Facile liquidare “The New Year” come qualcosa di ben fatto e ben scritto, sì, ma con ben poco di memorabile: eppure, proprio mentre riponi il cd sullo scaffale, il ritornello triste e sbilenco di “The company I can get” si infila in quell’angolo della mente che guarda il mondo con gli occhi bassi, e da lì non se ne va più.
E allora torni di nuovo a questo disco (il primo che, nel titolo, non comprende l’idea della fine, come facevano invece i precedenti “Newness ends” e “The end is near”), e scopri molto altro: l’irruenza di una “The door opens” seduta tra le pagine migliori di Pinback e Silver Jews, una “Wages of sleep” che ha in sé la stessa luce estatica dei Mazzy Star, i rimpianti sussurrati di “MMV” o l’abbraccio discreto del pianoforte di “Body and soul”, fino una “The idea of you” che prova a scrollarsi di dosso la malinconia a colpi di elettricità, fino a rinchiudersi in un sorriso silenzioso.
E così che queste canzoni se ne vanno, senza clamore né strepiti: nuove pagine di un’America dimessa e pensosa, che canta guardando la sera che scende, appena al di là di una finestra di casa.