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Se Trent Reznor ci aveva abituato a tempi di gestazione kubrickiani – almeno cinque anni di riflessione creativa per i primi tre LP – trovarsi davanti a un nuovo disco dopo “solo” due anni, è un’esperienza singolare, come se non si fosse fatto in tempo ad accumulare abbastanza attesa come succedeva in passato. Ma i motivi di attesa e curiosità non mancano, non solo per l’originale campagna promozionale, una vera e propria caccia al tesoro fatta di chiavette usb lasciate nei bagni ai concerti con mp3, filmati e indicazioni criptate su siti dedicati al nuovo album fino alla pubblicazione degli stessi brani in streaming sul sito ufficiale (previa registrazione gratuita su http://yearzero.nin.com ). Il motivo fondamentale è un altro. “With teeth” è stato, di fatto, tralasciando gli innumerevoli progetti ed EP, il primo album non del tutto convincente dopo tre capolavori indiscussi, dai primordi propriamente industrial di “Pretty Hate Machine” al più onirico e concettuale “The fragile” che hanno chiuso rispettivamente gli anni 80 e gli anni 90, con in mezzo la visceralità rock e meno criptica di “The downward spiral”. Sarebbe prevedibile un “With teeth” parte seconda, visto e considerato che questo HALO 24 (seguendo il lessico-NIN che nel conteggio include tutti i progetti dall’esordio in poi) è stato concepito con un laptop sul pulmino che li ha portati in giro negli Stati Uniti per il pirotecnico tour – ho la fortuna di dirlo per esperienza personale – o una sorta di contentino per il pubblico europeo che salvo due apparizioni a Londra non ha avuto la possibilità di rivalutare il suddetto album ben più efficace nell’impatto live. Niente di tutto questo. Mr.Autodistruzione nel bene o nel male continua a conservare quell’alone di imprevedibilità che ha sempre contraddistinto la sua oscura creatura musicale.
Abbandonata quasi del tutto l’immediatezza, dettata dalla propensione relativamente analogica di chitarre e batteria e da suggestioni vagamente anni 80, dell’ultimo album (fanno in parte eccezione “Capital G” e“The good soldier” in cui Trent pare rappare e la vigorosità glam di “Meet your master”), “Year Zero” è un disco che svela il suo volto dopo non pochi ascolti. E’ certamente il capitolo più enigmatico e misterioso della saga-NIN. Nonostante il perentorio trittico iniziale, l’incalzante rito propiziatorio strumentale tra industrial e umorismo di “Hyperpower!”, la trascinante “The beginning of the end” (melodica e coinvolgente, con quel tempo di batteria che curiosamente ricorda “My sharona”) e la brutale “Survivalism” (una sorta di “Wish” per le vertiginose fughe gutturali della voce strozzate prima della ripresa delle strofe) sono dei brani tipicamente NIN ma con un tappeto di effetti, synth e tastiere molto più evidente che in passato. Le tastiere e le basi caratterizzano, e a tratti pervadono, i brani in maniera più decisiva delle chitarre, diventando delle incontrollate scariche di elettricità nelle nevrosi postindustriali di “Vessel” e “My violent heart” che da un inizio guidato dalla sommessa voce di Reznor, un parlato tetro e rassegnato alla sua maniera, sfocia in un’allucinata esplosione in cui le chitarre si eclissano lasciando spazio a mefistofelici sintetizzatori. Effetti che emergono anche in brani apparentemente consoni alla tradizione della band dell’Ohio, come in “The great destroyer” nella quale navigano sullo sfondo del brano per poi scatenarsi nel finale, un vero delirio di elettronica dissonante ai limiti del noise, o nel sincopato industrial-funk di “The warning”, uno dei pochi casi in cui il basso è centrale pur trafitta da gelidi squarci sintetici e campionature stranianti. La paranoia metropolitana di “The greater good” è forse l’episodio più inconsueto, con un’andatura trip-hop e quella voce filtrata ai limiti del rantolo che sembra riecheggiare da chissà dove, coperta da un arrangiamento d’avanguardia, tra pianoforte, rumori e orchestrazioni.
Non basteranno dunque un paio di brani in parte vicini alle vecchie sonorità per convincere i fan legati alle sonorità più rock o addirittura pseudo-metal dei vecchi Nine Inch Nails. Lo spietato dark-industrial tra Sisters Of Mercy e Rammstein di “God given” e l’inquietante “Me I’m not” che rievoca i vecchi spettri di “The fragile”, immersa com’è in un desolante e claustrofobico paesaggio elettronico post-nucleare, sono emblematiche del tono che Trent ha voluto dare a questo nuovo album. Anche i brani più lenti, mai disdegnati fin dall’esordio e che, a ulteriore dimostrazione delle sue grandi doti di compositore, hanno caratterizzato i momenti migliori di ogni album, anche nel controverso “With teeth” per intenderci, non si allontanano da queste ambiziose sonorità futuristiche. Dall’evanescente e spaziale sinfonia ambient al pianoforte di “Another version of truth” agli sfoghi disperati che chiudono l’album, la malinconica “In this twilight” turbata da impietosi loop acidi e la conclusiva “Zero sum”, ideale seguito della suggestiva “Right where it belongs” che chiudeva lo scorso album, più spigolosa, meno rassegnata, e già proiettata forse verso il prossimo album. Perché l’Anno Zero dei Nine Inch Nails – doverosa la segnalazione relativa ai testi, una sorta di science fiction che descrive un mondo simile a quella ideato da Orwell in 1984 – non finisce qui. E’ previsto infatti già per l’anno prossimo il seguito, sempre ispirato al parallelismo tra le contraddizioni politiche e sociali degli USA post-11 settembre e la società schiava del totalitarismo, tra l’altro in una data neanche così lontana il 2020, protagonista di questo duplice concept album. “Non esiste nella storia nulla che non sia radicato in cose che già stanno accadendo” ha dichiarato Trent Reznor a riguardo, un concetto molto esplicito che, se applicato all’aspetto prettamente musicale del disco, finirebbe però col deludere le aspettative.
I Nine Inch Nails non sono più gli stessi, sperare in un autoreferenziale ritorno di fiamma per le vecchie sonorità, sarebbe un’insensata sottovalutazione della mentalità di un artista che ha sempre cercato di guardare avanti alla ricerca di intuizioni personali e spiazzanti. Il nuovo percorso intrapreso è complesso e ancora in fase di assestamento (al di là della poca immediatezza, non tutti i brani convincono pienamente, manca il brano con le potenzialità del classico, rari i picchi di eccellenza) ma la voglia e il coraggio di rimettersi in discussione senza cavalcare comodamente i fasti del glorioso passato, è tutt’altro che deprecabile.