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Diciamocelo subito. Era francamente difficile ripetere l’incredibile clamore di “Neon Golden”, uno degli album più belli di questo decennio per come era riuscito a rielaborare il pop-rock in termini elettronici senza osare e destrutturare quanto i Radiohead, ma con una manciata di canzoni di raro fascino. Né ha facilitato le cose il dilagare di band, tra filiazioni e collegamenti (i Lali Puna e i progetti dell’etichetta Morr Music), tra vicini e cloni (Ms John Soda, Electric President, 13&God, Barbara Morgenstern, B.Fleischmann e in parte i nostri Yuppie Flu) tutti spietatamente racchiusi nel filone dell’INDIE-TRONICA. Etichetta che parla da sé e che aldilà dei buoni propositi ben condensati in alcuni dei lavori dei suddetti artisti ha finito per rendere quasi inutile il potenziale esplosivo della proposta musicale Notwist di sei anni dopo.
“Good Lies”, primo singolo e primo brano di questo “The Devil, you + Me”, nonostante le premesse poco confortanti, riesce a convincere con una chitarra schietta e viscerale da ballatona Smashing Pumpkins e le decisive incursioni electro, dapprima minimali che finiscono quasi per prevalere nella progressione finale. Pochi fronzoli, atmosfera eterea alla Notwist, la melodia c’è e funziona. I problemi vengono fuori quando il copione finisce pericolosamente per ripetersi senza melodie irripetibili e brani quali “Gravity” e “On Placet Off” che potenzialmente avrebbero avuto il loro effetto fino a sei o sette anni fa, non incantano né stupiscono. Ciò nonostante qualche tinta vagamente dark aggiunta alla tavolozza di effetti che colorano il loro ossimoro di una malinconia sognante e fiabesca. Molto meglio, insomma, quando si osa sul serio. Esempio, l’imprevisto innalzamento di pressione della torbida e sinistra “Alphabet” con quei controtempo tra basso, bassi e batteria che sembrano schiacciare perentoriamente la voce edulcorata di Markus Acher.
Nell’efficace fusione di tinte calde e fredde che ha reso inconfondibile la formula dei Notwist (il calore di un pop dalle suggestioni folk dall’asettica ossatura elettronica) laddove ora prevalgono le prime si finisce per riproporre dei copioni troppo legati all’esperienza dello scomodo predecessore. Così “Sleep”, la titletrack o peggio “Gone Gone Gone”, lineari brani pop per chitarra acustica e voce sporcati da qualche eco e dalle impeccabili intuizioni di Gretschmann nelle basi e nelle campionature, finiscono nel dimenticatoio dopo un paio di ascolti. La voce con quel tono edulcorato e scanzonato che non ha mai avuto le pretese oltre che le esigenze di reinventarsi, se posta al centro della composizione inevitabilmente finisce per uniformare e appiattire l’intensità di brani che in teoria sarebbero costruiti neanche troppo dissennatamente. Si pensi alla rilassata “Boneless” che perde qualcosa proprio in una melodia che sembra un’autocitazione o a “Hands Of Us” che parte bene con una sghemba andatura trip-hop ma manca di un ritornello o comunque di un guizzo che la trasformi in una canzone da Notwist, senza nulla togliere all’ottimo arrangiamento con quel violino che taglia l’aria a dovere dando un tocco cinematografico e romantico. Lo stesso violino e lo stesso pathos che caratterizza uno dei momenti migliori dell’album, “Where In This World”, con la voce sospesa nel nulla e soste angoscianti in cui gli archi si scontrano nel poderoso beat che sporca l’aria. Episodio isolato quanto l’immediata freschezza primaverile di “Gloomy Planets” che ha dalla sua un motivetto incisivo a fare da contraltare alla riproposizione delle solite soluzioni negli arrangiamenti.
Tutta colpa di “Neon Golden” o tutta colpa dell’Indie-tronica?
La risposta al prossimo album, se mai arriverà.