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Leggendo la discografia degli Oneida vi imbatterete, come primo nome, in questo “Enemy Hogs”. E’ giusto precisare che il vero e proprio esordio della band risale al 1997, fu inciso per la Turnbuckle Records e si intitola “A Place Called El Shaddai’s”: quando il materiale della band fu acquistato dalla Jagjaguwar – label che produce, tra gli altri, gli Union of a Man & a Woman, i South e i Fuck – questo album d’esordio rimase stranamente escluso, ed è oggi una rarità.
Anche “Enemy Hogs” uscì per la Turnbuckle nel 1999, prima di diventare patrimonio Jagjugawar. Non si può certo dire che l’album inizi per il meglio: il brano di apertura, “Whitey Fortress”, è un puro, sbiadito esercizio di stile, prevedibile e che palesa fin troppo le derivazioni post-rock della band. Ma già dall’attacco di batteria di “Primanti Bros.” si intuisce che si tratta solo di un incidente di percorso: le direttive sonore del gruppo sono già improntate verso un incrocio folle fra deliri percussivi, pianole stressate e reminiscenze punk.
Una tromba calda ed esotica apre “Bombay Fraud” e la trascina in un’atmosfera malata, percorsa da suoni ossessivi e da una voce in suadente decadenza, mentre riverberi e rumori vari si fanno strada in sottofondo: sicuramente una delle punte più alte dell’album, incontro fra free-jazz, avanguardia, stoner e punk. Nuovamente suoni devastati e apocalittici (con voce narrante annessa) in “Give Up…and Move One”, mentre “Little Red Dolls” appare come un punk stralunato, figlio di band germinali come gli Husker Du di Bob Mould.
Poderoso e sporco il riff che si fa strada, in “Ginger (Bein’ Free)”, fra spaccati di rumore, un coro angelico è la base portante di “Turn It: Up (Load)”, per il resto angosciante riflessione elettronica per voce sibilante. I riferimenti alla magniloquenza anni ’70 si fanno più espliciti, mentre l’organo cozza con le asperità di una chitarra stressata. Ancora l’elettronica a guidare “Gettin’ It On”, ancora paradossi ossessivi nella splendida “Hard Working Man”. Derivazioni metal nella durezza di “Quest for Two”, pura follia avanguardistica nella sgraziata “Fourth Eye”, un universo ancora acerbo ma già cocciutamente estremo in “Wicked Servant” che chiudeva la prima edizione dell’album: la Jagjugawar nella ristampa ha infatti aggiunto una traccia, la frastornante ed estenuante “O.L.B.”, che con la sua ossessività ricorda da vicino il CD 1 di “Each One Teach One”.
Qui comunque siamo ancora lontani dal capolavoro, anche se nel complesso l’album suona più che bene. I gruppi di riferimento (oltre ai già citati Husker Du credo sia doveroso fare il nome dei Brainiac, oltre alla scena garage anni ’70) sono ancora troppo evidenti nelle trame sonore, e il gruppo sembra ancora alla ricerca di una propria reale sistemazione. Ma i segni della folle genialità fanno già capolino in più occasioni, e si materializzeranno in maniera convincente fin dal seguente “Come On Everybody Let’s Rock” (d’ora in poi gli Oneida sforneranno un album all’anno).