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Incassato alla grande il colpo dopo l’allontanamento di Oliveri, i QotSA hanno trovato la loro nuova dimensione e riscoperto la spavalderia di chi, sì, ha fatto “il botto”, ma può soprattutto permettersi ancora (di più) di fare quello che vuole.
Alla faccia di chi li deprecava per una svolta pop che in realtà non c’è mai stata, “Era Vulgaris” riprende in mano le distorsioni e una vena acida che prende sempre più corpo nei riff tipici di quello che Joshua ha autodefinito robot-rock. Perché parlare di stoner non aveva già più molto senso nel lontano 1998, figuriamoci adesso. Ora quel che ne rimane viene ripulito, come nella sonnolenta “Into The Hollows”, riff hard-rock elementare che, invece di spazzare via tutto, culla come fosse la ninna nanna (o il definitivo commiato) per i vecchi stoner in pensione.
Robot-rock, dicevamo. Un’ipnosi continua che si basa sui ritmi elementari di Castillo e sui riff ripetuti fino alla nausea. Una continua variazione dal tema che non rinuncia ad aggredire l’ascoltatore, come nelle clamorose botte di “Battery Acid” e “Run Pig Run”, o a sapere addirittura di industrial (con i dovuti paragoni) per “Misfit Love”, uno dei pezzi migliori. Tutto questo senza rinunciare al gusto melodico e al tipico falsetto che tutti noi amiamo, che fra l’auto-citarsi di “3’s & 7’s” (“If Only”?) e il ricordare padri putativi come i Masters Of Reality, riescono anche stavolta a colpire nel segno.
Joshua poi è un gran furbo. Ora che in realtà il triangolo Homme – Van Lueween – Castillo sembra aver realizzato la propria natura di band, non rinuncia a sbandierare grandi collaborazioni che in realtà non ci sono: Trent Reznor, Mark Lanegan, Julian Casablancas. Il primo messo in disparte in una title-track stupenda, lasciata fuori dal disco e declassata a bonus per alcune edizioni; il secondo che rantola un paio di vocali in modo inudibile durante “River In The Road” (forse la più prescindibile, nonostante il ritmo travolgente); e infine il terzo che si limita a un paio di frasi nel finale del singolo “Sick, Sick, Sick”. Contro ogni dichiarazione, questi QotSA sono sempre più un gruppo e sempre meno una Desert Session.
Da queste però, l’inevitabile rifacimento come di consueto, preso dagli ultimi volumi, “9 & 10”. La scelta pare però bizzarra: non si tratta di una “Millionaire” o di una “Avon”, ma di un divertissment come “I Wanna Make It Wit Chu”, in cui Joshua si divertiva a fare il Lanegan della situazione e che in questo contesto spiazza e spezza il ritmo. Con un sorriso, un occhiolino alle prime file e una buona dose di gigioneria (e mica per niente durante l’ultimo tour il pezzo veniva introdotta con “This next song is about… fuckin’”).
Dopo quello che è stato forse il loro più grande successo di pubblico e critica, “Songs For The Deaf”, i Queens Of The Stone Age del 2007 sanno di essere qualcos’altro. Una band diversa che gioca col proprio passato ma che non vuole incastrarsi in un marchio di fabbrica. Così si cambiano i suoni, si cambia il metodo di produzione (ma non il guru dietro il mixer, Chris Goss), ci si sfida cercando di mantenersi sempre e comunque riconoscibili. “Era Vulgaris” quindi non è il disco precedente e non è nemmeno quello prima, né quello prima ancora.
Fortunatamente, benché ci saranno delle smorfie e dei lamenti per un’urgenza creativa altalenante, siamo di fronte a qualcuno che, sappia oppure no dove sta andando, non riesce ancora a stare fermo.