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I Lamb avevano due teste, due anime, due cuori. Lou cantava seguendo strane armonie con Joni Mitchell nel cuore, mentre Andy sbriciolava il suono tra gli spigoli del basso acustico e dure rifrazioni digitali drum ‘n’ bass. E ora?
“Un uomo saggio mi disse ‘Non sminuire la semplicità’ Così ho spogliato la mia vita e ho provato a vivere giorno per giorno”: sono queste le prime parole che accolgono nell’intimità di “Beloved one”, il primo disco solista di Lou, dove non c’è alcuna ansia di modernità, ma un respiro leggero, ampio, naturale, la stessa nudità di “The Texas campire tales” di Michelle Shocked.
Solo la voce è rimasta la stessa: un sospiro tra innocenza e perversione, di spirito e carne, beatitudine e armonia. Questo disco è il ritorno alla semplicità di una donna a cui è crollato addosso il proprio mondo, una confessione il più possibile diretta, il ritrovare la felicità e l’essere disposti a cantarlo. Con il solo accompagnamento della sua chitarra acustica (suonata in un modo certo non virtuosistico, tutto giocato sulla ripetizione degli stessi arpeggi), di percussioni e di un violino cinese, Lou riesce a comunicare tutta la serenità delle sue parole, che nei Lamb era coperta dalla voglia di mettere in mostra il proprio straordinario talento.
“Beloved one” non è così, non deve dimostrare nulla, ed è perfetto nella sua nudità: l’estasi di “Tremble” e delle sue percussioni rotonde, la title-track aperta dal suono di un flauto di bambù e abbracciata al violino fino alla celestiale apertura melodica che la chiude, la spiritualità del mantra di “Inlakesh” (con un ricchissimo tappeto ritmico), il contrabbasso “picchiato” in “Fortress” (l’unico evidente richiamo sonoro ai Lamb) e la bellezza della voce in “Why” e nella ninna-nanna posta come ghost-track sono semplicemente straordinarie.
Quello che ad un ascolto distratto sembrerà semplicemente l’ennesimo disco folk, si rivela come uno degli album più toccanti, onesti e reali che mi sia mai capitato di ascoltare. Musica pura. In ogni senso.