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Metti su “Before Destruction” con quelle chitarre stoppate quanto le ritmiche spezzate, gli echi che ronzano attorno a una di quelle voci graffiano a primo ascolto, il “rumore” dei silenzi e avverti ancora la polvere di un garage. Negli States c’era il garage-rock. Questa forse è già un’altra epoca, anche se non è passato chissà quanto. Saprà di qualcosa di già sentito malgrado le soluzioni compositive non così banali, ma quando vi s’incastra a ruota l’accattivante incedere di “Is Love Forever” si perde ogni scetticismo. Insomma sì, saranno pur sempre loro, ma funzionano.
Avete presente quelle band sottovalutate, ma non perché fa comodo dire così per attirare l’attenzione sul loro nome? Ma perché davvero, a lungo, troppo a lungo sottovalutate? Gli Spoon sono una di queste. Prova ne sia che – gigantesco mea culpa – anche Kalporz ne parli per la prima volta dopo sei dischi. Fosse il tipico problema relativo ad artisti presenziosi di difficile digestione e metabolizzazione avremmo tutti le mille giustificazioni del caso. Ma la band texana è quanto di più vicino all’easy-listening in quella scena statunitense che si tiene con orgoglio fuori dai confini mainstream. Saranno pure finiti su “O.C” con “The Way We Get By”, ma dal 1996 a oggi la creatura di Britt Daniel ne ha sfornate eccome di canzoni irripetibili. E ha sfornato, a dirla tutta, almeno uno o due album da conservare con cura in scaffale, su tutti “Kill The Moonlight”. Il quarto lavoro, il secondo sotto l’influente e americanissima Merge (l’etichetta indie della North Carolina di Arcade Fire, The Magnetic Fields, Neutral Milk Hotel, Polvo, Caribou, Dinosaur Jr…), ha poi retto con dignità la prova del decennio nei classici bilanci conclusivi.
Quale il trucco? Gli Spoon non hanno mai troppo esteso la loro gamma di sonorità e soluzioni, almeno come strumentazione sempre classica e fedele alla linea rock. Meno fighetti e senza quell’appeal da magazine degli Strokes, la loro formula è senz’altro più minimale e coraggiosa. La cura degli arrangiamenti acuta e a tratti stupefacente per la sua essenzialità. Gli Spoon in definitiva, senza strafare né sconvolgere i confini della nuova scena musicale, non hanno mai sbagliato un colpo e sarebbe bene sottolinearlo una volta per tutte. Mai troppo distorti, mai troppo pop, mai troppo esosi. Il giusto mezzo come stile di vita. In Nord-America sono un’istituzione sui palchi, nei festival e negli show serali e post-serali. Altrove un po’ meno.
Questo “Transference” conferma l’incredibile capacità di Britt di ricavare dei pezzi maledettamente efficaci con una semplicità disarmante. Si ascolti “The Mystery Zone”, ficcante e ricamata alla perfezione o la più intraprendente “Who Makes Your Love” depurata dalle chitarre e immersa in un groove morbido quanto incessante. Come dire che laddove i Phoenix dall’altra parte dell’oceano non possono che suonare più patinati e levigati, quattro americani medi dal Deep South non potrebbero che suonare così. E si avverte sempre quel calore ruvido e viscerale nella voce monocorde e sempre intensa di Britt. In “Written In Reverse”, roba da rivisitazione digitale degli ultimi Beatles, rasentano la perfezione (a differenza dell’altro tributo, la ballad “Goodnight Laura”). Nonostante l’inizio così riuscito, il disco non scende troppo di tono. “I Saw The Light” suonerebbe come una cover delle ballad dei Pixies, cui mai celatamente si sono accostati nelle influenze, riproposta dai Queens Of The Stone Age fino all’improbabile cambio di direzione verso un suggestivo art-rock al pianoforte in crescendo su cui si dispiegano instancabili grovigli chitarristici.
“Trouble Comes Running” li riporta ad Albione, fa un po’ Who, un po’ Kinks, una versione nerd del revival riportato in auge dagli Strokes di “Is This It?”. Skippare non è impresa da poco. La succitata ballad allenta la tensione, ma è una sensazione effimera. Così seguendo l’ordine delle tracce, dalla ballad nuovamente a stelle e strisce e di derivazione Pavement, “Out Go The Lights”, si scivola in un pezzo tipicamente Spoon, autoreferenziale e autoderivativo quanto volete, ma sempre in grado di far muovere a tempo la testa. “Go Nuffin”: basso e batteria vanno a memoria, le chitarre assumono colorazioni wave apparse in maniera intermittente negli ultimi lavori del collettivo di Austin. Una sorta di preludio alla sorpresa finale, “Nobody Gets Me But You”, ponte aereo-temporale tra Talking Heads e New Order in una nostalgia intellettuale delle ipnosi anni ’80 in cui le chitarre annaspano tra synth ed effetti smontati e destrutturati.
Solo rock’n’roll? Se mi è consentito, ‘sti cazzi.