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Davvero non si può racchiudere in poche righe (né saremmo le persone più indicate) la biografia intellettuale di Matthew Herbert, geniale compositore elettronico inglese, capace di spaziare, in vent’anni di irripetibile carriera, dalla techno all’avanguardia cageana più spericolata, attraverso ri-composizioni di sinfonie di Mahler, esperimenti con big band di respiro jazzistico e allucinate speleologie nei regni inorganici della microhouse. Tutta la musica di Herbert risulta in effetti pressoché inscindibile dal discorso che l’autore costantemente produce su di essa. Una musica, quella di Herbert, sinceramente speculativa, che pensa e che dà da pensare.
Il progetto della trilogia “One” risulta in questo senso uno degli approdi più originali della ricerca herbertiana. Partito nel 2009 con “One One”, proseguito l’anno successivo con “One Club”, il trittico giunge ora al suo compimento annunciato con “One Pig”. Più che in ogni altra opera di Herbert, in “One” riluce la circolarità sistemica cui le nostre esistenze postmoderne si sono irrevocabilmente consegnate: quello che si dispiega è il meccanismo implacabile di un dispositivo di morte attivato nelle pieghe più intime del nostro vivere quotidiano. Se in “One One” (meravigliosa esercitazione poetica in bilico tra Eno e Sylvian) si srotolava la ragnatela toponomastica delle città invisibili che i nostri corpi e le nostre menti attraversano senza lasciare traccia, in “One Club” (devastante e cacofonico montaggio di suoni registrati al club Robert Johnson di Francoforte) veniva messa a nudo, pezzo per pezzo, l’ineluttabile catena di montaggio del divertimento, assemblata in uno degli innumerevoli opifici dell’edonismo metropolitano.
Con “One Pig” giunge l’ora del capito più scandaloso dell’intera vicenda, l’ultimo, quello che segue e drammatizza la storia di un maiale, dal concepimento alla morte per squartamento (con annessa resurrezione nel regno dello spirito, come pare suggerire l’enigmatica “May 2011”). Il grugnito suino che grufola nel fango, tra rumori di mangimi e di seghetti, percorre come un ammonimento sinistro le nove tappe fatali di una Passione ordinata per mesi, dall’Agosto 2009 al Maggio 2011. Suoni e musiche concrete, raccolte (peraltro non senza difficoltà) nei luoghi dell’allevamento, ordinano così l’algoritmo, uno e trino, di una distruzione progressiva. Carne da macello eravamo e carne da macello torneremo. Il maiale che Herbert scompone in mille frammenti sonori e poi via via ricostruisce, senza mai buttare nulla (come si conviene), racconta la storia della vita che si nutre della vita per nutrire altra vita. Il rantolo animale diventa l’urlo di un’esistenza risucchiata dentro l’ingranaggio senza appello del consuma-produci-crepa. Il marxista eterodosso Herbert ci costringe in questo modo a ballare il suono del nostro annientamento giornaliero.
Noi siamo la produzione, pare sussurrarci. Dalla nascita al piatto.
Qui sotto il link di un piccolo documentario-reportage sul disco, approntato dal Guardian:
78/100
(Francesco Giordani)
15 Novembre 2011
2 Comments
Stefania Italiano
Lavoro da brivido. Bella recensione 😉
Francesco Giordani
merci bocu…album deliziosamente sgradevole