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“Sweet Exorcist” è il nome di un album e di una canzone di Curtis Mayfield del 1974. Ma è nel 1991 che questo lemma acquista un nuovo e affascinante senso grazie al lavoro di Richard H. Kirk, co-fondatore dei seminali Cabaret Voltaire, e di Richard Barrett, dj di culto della scena techno di Sheffield e remixer per i Pulp dell’amico Jarvis Cocker. È infatti degli Sweet Exorcist il primo disco pubblicato dalla Warp Records, etichetta simbolo dell’intellettualizzazione e del boom della sperimentazione elettronica (techno-oriented) negli anni ’90 e ’00. Quel disco fondamentale si chiamava “CCEP” e appartiene oggi alla mitologia della musica electro e dance. Dopo vent’anni la Warp lo ripubblica insieme ai due singoli precedenti (“Testone” e “Clonk”) del gruppo, nel doppio “RetroActivity”. Ventitrè tracce, alcuni preziosi remixes e versioni demo (con le prime versioni di “Clonk” e “Testone”): tutto quello che gli Sweet Exorcist hanno registrato in vita loro.
Il sound si presenta orientato verso una techno spuria, filtrata, minimale e, a suo modo, psichedelica. All’epoca, dai ravers, questo tipo di musica veniva chiamata groundbreak bleep techno, o fraintesa come uno strano e decadente parente dell’acid degli squat londinesi. Ma più che all’acid sarebbe opportuno pensare all’industrial, quella di matrice Cabaret Voltaire, con le contaminazioni afro e demoniache, o a un dub paranoico e underground, che con la techno di Detroit e New York ha ormai pochissimo in comune. Pare quasi che il suono di quest’estetica sia venuto fuori, così, perfetto, dalla mente dei due produttori, come una Minerva già bella, matura e giudiziosa dal capoccione di Giove. Perché lo scarto con il passato, la potenza poetica del suono, è tale che si può parlare di una vera e propria cesura storica, di un prima e un dopo “CCEP”. Il primitivismo, la brutale e angosciantissima essenzialità dei beats congiunta alla profondità e alla potenza dei bassi, che caratterizza il suono alieno e alienante della band non ha paragoni con nessuna produzione dell’epoca. Così il primo singolo “Testone” è un manifesto per la nuova techno inglese, marchio di fabbrica della Warp: melodia semplice e incisiva, ritmo crudo, potente sub-bass, sample geniale (dalla Yellow Magic Orchestra) e atmosfera agghiacciante.
Su disco il gruppo alterna brani di ossessivo futurismo bleep (“Clock” e “Mad Jack”) e tracce ricche di contaminazioni industrial (“Samba”, dove spiccano le percussioni di Colin Eliott) e fughe di sintetizzatori (synth pop e industrial tedesca sono genealogicamente cause storiche della techno), inseguendo l’estasi da trance (inteso come fenomeno psichico e non come genere, ovviamente) e l’annichilimento da reiterazione, distaccandosi dall’inflazionata cultura house. La monotonia, l’essenzialità e la decadente intelligenza (artificiale) di queste tracce anticipano la jungle, la dubstep e la speed bleep techno di questi anni. E tutto, a partire dalla bella copertina di manipolazione grafica, è seminale.
Quel 1991 e quella musica sono, insomma, meno lontani di quanto possiamo credere. È vero, allora non c’era tutto questo schifoso cinismo e c’era ancora qualche speranza negli occhi e nei pensieri della gente. Una scintilla di passione, che le docce fredde e le piogge acide degli ultimi anni sembrano aver definitivamente annientato. Ma è proprio dalla riconsiderazione storica del passato che può nascere la spinta verso qualcosa di nuovo, di più decente. Quando nel 1400 i greci scapparono da Costantinopoli invasa dai Turchi e vennero in Italia, sembrava l’annuncio dell’apocalisse. Invece questi greci si misero a tradurre per gli ignorantissimi italiani testi di filosofia e di letteratura antica dimenticati nelle sacrestie e nascoste nei ripostigli delle chiese. Dalla scoperta di questo patrimonio nacque l’Umanesimo e poi il Rinascimento. Ora non voglio assolutamente dire che riscoprire una mezza tamarrata come “Testone” sia l’equivalente di riscoprire il “Timeo” di Platone, ma che se uno non si confronta con il passato, manco si accorge di quanto fa schifo il presente e resta per sempre una capra che magari si esalta per l’ultima cretinata dubstep ambientale spacciata dai giornaletti, utilissimi al macellaio per incartare la carne e a mio padre per schiattare le mosche, per il più grande disco dell’anno. E poi sono un grande fan dei Cabaret Voltaire.
75/100
(Giuseppe Franza)
1 dicembre 2011