Share This Article
Uno due tre, il quarto album vien da sé. Lo sparuto ceffo dell’Alabama con un colpo di coda spazza via l’immagine naif che lo accumunava sempre più al grande (pace all’anima sua) Wille DeVille (1950-2009) e licenzia un dischetto di appena diciannove minuti che definire ridotto all’osso è quasi un eufemismo. Che Sartain fosse un punk dall’animo romantico si capiva già all’uscita del suo lavoro più riuscito, quel “Join” del 2006 che gli diede notevole visibilità. Mai però avremmo immaginato che per raggiungere l’essenza avrebbe sacrificato tutte le sfumature che donavano sensibilità alla sua musica.
Niente più profumi western, niente più rockabilly a rotta di collo, niente più interpretazione moderna di Chuck Berry, niente più Morricone che gioca a fare il mariachi e quindi niente più possibilità di apparire nei titoli di coda in un film di Tarantino. Solo garage/punk tirato e velocissimo, tredici inni da un minuto e mezzo l’uno che arrivano diretti come una lama di coltello a squarciare la tranquillità che il tempo ci propina.
Punk sparato alla velocità della luce che recupera il discorso lasciato a metà da (pace nuovamente all’anima sua) Jay Reatard (1980-2009); musica che elimina volontariamente gli orpelli per ribadire il concetto di carnalità e passione alla quale il Nostro ha sempre concesso tutto se stesso. Stavolta, nonostante il minutaggio risicato e una gamma di colori poverissima, quello che era patrimonio dell’America più rurale guidata dallo spirito di Little Richard, diventa di colpo un affresco nella schizzata Grande Mela, con Joey, Johnny, Dee Dee e Tommy che si godono i figli della loro generazione. Incapace di morire (Too Tough to Die – Ramones 1984) ma nemmeno troppo capace di vivere.
Hey, Ho! Let’s Dan!
73/100
(Nicola Guerra)
23 gennaio 2012