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“Ma perché non si limita a godersi la pensione e a lavorare al volume 2 degli archivi?!? Qualcuno dovrebbe fermarlo…”. Questo il pensiero che ha attraversato la mente di numerosi fan di Neil Young (autore di questa recensione compreso) alla notizia che il rocker avrebbe riunito i Crazy Horse al gran completo dopo sedici anni (in “Greendale”, del 2003, il cavallo pazzo era zoppo per l’assenza di Frank Poncho Sampedro) per registrare un disco di traditional americani. Un pensiero diventato ancora più cupo alla lettura della track list: si andava da “Oh Susannah” a “Clementine”, familiare ai quarantenni di oggi per via della versione canticchiata da Braccobaldo nell’omonimo cartone animato.
E invece tocca ammettere che il canadese non è ancora da ricovero e che, anche per questa volta, ha dimostrato di avere ragione. “Americana” è un disco interessante e davvero riuscito, un progetto di grande valore. Se si ha voglia di dimenticarsi delle sue debolezze, la forza di Neil Young e dei Crazy Horse travolge l’ascoltatore in quello che è un vero e proprio bignami della carriera del rocker e della sua backing band per eccellenza. I brani della tradizione americana vengono piegati a viva forza dall’entusiasmo testardo del canadese, che si serve di ballate tradizionali per veicolare il suo incredibile e inconfondibile sound. Un po’ come se il vecchio Neil, canadese di nascita, iconoclasta per vocazione, avesse deciso di fare l’impertinente con una tradizione che rispetta, ma che non gli appartiene come dna, per metterci sopra il proprio marchio di fabbrica, senza però violentarne l’essenza.
Così brani come “Oh Susannah”, “Travel on” (con il basso di Billy Talbot che non prende una nota nemmeno per sbaglio nel finale…) e “Clementine” sembrano usciti da “Ragged Glory”, “Wayfarin stranger” ricorda “Box car”, l’outtake di “This note’s for you”, mentre “Gallows pole” evita il confronto (improbo…) con la versione dei Led Zeppelin andandosi a collocare in un ambito che lambisce il soul. Non mancano il doo-wop di “Get a Job”, omaggio forse agli esordi dei Crazy Horse come quartetto vocale negli anni ’60 e la psichedelia in stile Zuma di “High flying bird”. Mentre, a livello di testi, la violenza di” Tom Doola” o il cinismo di “Clementine” ci ricordano molto da vicino gli affreschi dipinti in “Powderfinger” o “Down by the river”.
Certo, “Americana” è un disco tutt’altro che perfetto e non tutti i brani sono memorabili (“This land is your land”, ad esempio, e “God save the queen”). Ma si tratta di un album che dimostra come il rock non è altro che quattro semplici accordi e una melodia elementare. Una formula nella quale, alla fine, il cantante conta ancora di più della canzone. Ma “Americana” è anche una grande occasione persa: da vent’anni non si sentiva un Neil Young così entusiasta, ispirato e con un sound così eccitante su disco. Peccato non averlo messo a disposizione di brani inediti. O forse no?
65/100
(Giampaolo Corradini)