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Messa da parte, nel 2011, la maschera Moltheni e riposto (temporaneamente?) in un cassetto il vestito strumentale del progetto Pineda, Umberto Maria Giardini torna a farsi sentire con la “Dieta dell’imperatrice” , disco uscito per La Tempesta Dischi e per Woodworm (che ne ha curato l’edizione in vinile).
Un lavoro intenso in cui il cantante marchigiano si mette a nudo mostrando, con orgoglio, lividi e cicatrici, segni del tempo andato ma anche punti di riferimento da cui ripartire per un nuovo futuro.
L’imperatrice, metafora di una musica italiana messa a dieta da un mercato discografico restio a rischiare ed esplorare nuovi orizzonti, trova in questo lavoro linfa vitale ed ispirazione. Merito di Giardini che ne è il cantore e di Antonio Cooper Cupertino che, in qualità di produttore, tratta con i guanti l’imperatrice esaltandone movenze e andatura. Del resto, non è un caso che Cupertino abbia curato l’esordio di quella Anna Calvi che, a detta dello stesso Giardini, è stata la musa ispiratrice dei brani de “La dieta dell’imperatrice”.
Un album che, attraverso la voce di quello che una volta si faceva chiamare Moltheni, canta l’incapacità degli uomini di comunicare tra di loro e di godere delle gioie e dei silenzi della natura. Giardini vede in questo difetto, conseguenza della deriva tecnologica degli anni 2000, l’inizio del declino dell’umanità e ne descrive un immaginario macabro epilogo nella tesissima “L’ultimo venerdì dell’umanità”, canzone che, non a caso, chiude il disco. Ma è tutto l’album a esplorare territori carichi di tensione in cui la voce melanconica di Giardini scava, in profondità, seguendo i solchi tracciati da musiche cariche di elettricità rarefatta.
Le chitarre implodono e sembrano alla costante ricerca di un equilibro, se pur instabile, senza mai riuscire a trovarlo. Disegnano passeggi che la voce di Giardini popola e si muovono, a volte in superficie, aprendo angoli di luce, altre in profondità, rifugiandosi in zone d’ombra. Proprio questa precarietà/instabilità dona ai brani un tocco di rara bellezza; una sensazione di imminente esplosione ne pervade il suono, una esplosione che, però, non si realizza mai. Solo in rari momenti (la strumentale “Il desiderio preso per la coda” , il finale di “Fortuna, ora” e “Il sentimento del tempo”) la musica sembra liberarsi in quelle che, più che esplosioni, appaiono come sfoghi improvvisi.
Un disco irrequieto in cui le chitarre di Giardini e Marco Maracas danno forma e sostanza ai brani che il piano Rhodes di Giovanni Parmegiani riempie di sfumature e colori cangianti mentre Cristian Franchi, dietro la batteria, sostiene una sessione ritmica quasi totalmente privata del basso.
Un disco sotterraneo, dal sapore psichedelico, in cui il canto di Giardini si fa essenziale e maturo raggiungendo vette notevoli in “Saga” e “Quasi Nirvana”. Quest’ultima soprattutto, magnetica e ipnotica nel suo incedere iniziale, si libera nel finale con i violini che accompagnano la voce di Giardini che, bruciando “come la legna in inverno”, arde più sincera che mai.
72/100
(Ivano Zullo)
6 dicembre 2012