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Mentre parlo con Sergio Cataldi, ex commesso di Track, dj, collezionista, giù per strada ci sono manifestazioni che si incrociano, studenti, operai, carabinieri che fanno da spartiacque, e non posso fare a meno di pensare che non siano distanti questi umori oscuri che scuotono le ansie e le angosce di più generazioni e la nostra chiacchierata sulle discherie, suvvia! Parliamo di dischi, di musica inflazionata, di negozi che non sono stati in grado di rinnovarsi, di non sostenere la crisi. Sì, parliamo di musica mentre per strada si scontrano, anche violentemente. Ma le cose non sono separate. Sembra un secolo fa e invece è solo uno sputo in più di una decade – il 2000 – l’anno in cui Sergio, già cliente abituale di Track si sentì offrire dal proprietario Gaetano Milazzo (in seguito purtroppo morto per un male incurabile) su segnalazione del commesso storico del negozio (Giovanni Rubino) un’offerta di lavoro: “Alla prima occasione in cui sono andato lì a comprare un disco mi hanno proposto il lavoro, e io ho accettato immediatamente: erano tempi in cui il lavoro te lo davano facilmente!” Si trattava di un part-time, ma per un ragazzo che studiava e soprattutto per un appassionatissimo di musica era il paradiso. Che andava ad aggiungersi allo sbocciare di una nuova stagione di gioia culturale a Palermo, di cui Sergio si sente in qualche modo co-responsabile: “Contestualmente ha iniziato a lavorare lì insieme a me, Bruno Marzano (…) Senza offesa, il negozio ha avuto un rifiorire… perché io e Bruno avevamo una competenza musicale a 360 gradi e abbiamo iniziato a fare consulenza sugli acquisti del negozio. Bruno si è concentrato sul metal e io sulla musica elettronica. Dal 2000 al 2002 si è creato un bel movimento di gente che veniva il pomeriggio, creando una specie di forum esterno al negozio.” Ma Sergio ha idee chiare su ciò che è successo dopo, e per la sua lucida insistenza sul tema riecheggia Taormina che sull’argomento aveva battuto costantemente con tutte le parole e le argomentazioni disponibili. Il degrado culturale: “(…) la scomparsa del negozio di dischi non è legata solo alla crisi, secondo me c’è stata una concausa: l’enorme abbassamento culturale di cui risente la società. Leggevo una volta su facebook il post molto intelligente di un ragazzo che diceva che se sugli autobus facessero ascoltare musica classica, la gente per strada comincerebbe a fischiettare Mozart. La gente alla fine prende quello che le fanno ascoltare! Parliamo della media, dell’ascoltatore passivo al quale viene propinata immondizia che alla fine inizia a piacere (…) Non si può negarlo, è all’occhio di tutti, l’italiano è diventato un popolo culturalmente impoverito, arido, la cosa si respira. Da noi poi la cosa è portata all’ennesima potenza! Avendo parallelamente l’esperienza di dj ho toccato il polso della situazione proprio nella relazione sociale.” Sergio Cataldi mi indica un’altra spia rivelatrice di questa caduta culturale: “Nel mio caso il commesso rivestiva un ruolo fondamentale, perché io avevo tantissima gente che si metteva nelle mie mani, si fidava del mio gusto (o del gusto di Bruno) per esempio c’erano clienti che avevano bisogno di un sottofondo per il loro negozio, mi spiegavano di cosa avessero bisogno, chiedevo che tipo di negozio fosse, e poi mi dicevano “Fai tu”. E non ho deluso mai nessuno. C’era una cura e una coerenza tra il tipo di attività commerciale e quello che si doveva ascoltare di sottofondo (…) il proprietario del negozio aveva questo interesse, questa cura, faceva questa richiesta e curava questo aspetto. Questo è indicativo! Oggi non gliene frega più a nessuno di questo aspetto. Purtroppo questo impoverimento non ha età, è come se si fossero rincretiniti tutti.”
L’amarezza si mitiga per un istante in quasi elegia se gli chiedo come era la Palermo del 2000: “Almeno fino al 2005 Palermo ha vissuto un rifiorire che è purtroppo scomparso. C’era un sacco di musica dal vivo, di inediti, di qualità. La gente si interessava tantissimo alla musica in genere e alla musica dal vivo prodotta nella nostra città. Quindi non disertava gli eventi organizzati e i concerti che c’erano a Palermo, chi poteva investiva sulla musica dal vivo, non soltanto locale, infatti in quel periodo ci sono stati concerti di band underground notevoli per Palermo… c’era un bellissimo giro di concerti ai Candelai, ci sono state le prime due edizioni del KalsArt che hanno visto un cartellone di artisti di pregio. Io pensavo che Palermo fosse diventata finalmente la città in cui speravo di vivere. Ancora nel 2005 Musicomania lavorava alla grande, Track lavorava bene… lavoravano ancora tutti perché praticamente c’era un circuito che gravitava attorno alla musica da tutti i punti di vista. Per dire, le band palermitane che facevano un inedito andavano a portare i loro cd autoprodotti nei negozi di dischi, noi ne avevamo tantissimi messi in conto vendita, e si vendevano! Arrivava chi li aveva visti in concerto in un locale e ti chiedeva il cd. Abbiamo venduto demo di un sacco di gruppi autoprodotti. E pensa all’autoproduzione lontanissima dai computer (…) Palermo allora aveva aperto la mente. C’era un fermento e un entusiasmo nel partecipare alla musica… Pensa all’Agricantus: faceva le serate il mercoledì, ed era sempre pienissimo perché ospitavano anche le selezioni regionali dell’Arezzo Wave… le serate erano partecipatissime. Ti dirò di più. In genere le selezioni erano in due serate, il martedì c’era solo il gruppo ed era pieno di gente; il mercoledì facevano il bis del concerto del giorno prima, dopo seguiva il Dj Set con musica totalmente alternativa, ed era pieno di gente pure il mercoledì, compresa molto spesso gente che era venuta la sera prima! Stiamo parlando di una Palermo che frequentava i locali il martedì e il mercoledì. Oggi non succede mai.”
Da appassionato e da Dj ci tiene anche a precisare il lato negativo del modo odierno di usufruire della musica, che secondo Sergio ha impoverito un’intera società: “(…) avendo la possibilità di avere tutta la musica che voglio, anche per me appassionato di musica accade che ne ascolto solo un decimo di quella che vorrei. Quando uno acquistava un cd, una volta se lo sorbiva fino a quando non lo aveva capito, assimilato, o lo apprezzava dopo tanti ascolti… oramai questo non lo fa più nessuno, nemmeno io che sono appassionato, pensa quindi ad un ascoltatore distratto! (…) è finito l’ascolto critico e attento!” E da giovane uomo quale è Sergio, nella sua continua ricerca di spiegazioni a quello che è successo alla Palermo della sua adolescenza e prima giovinezza, una Palermo che sembra il sogno di un illuso e che era tutta vera, aggiunge una osservazione che nella sua causticità ferma un momento di passaggio generazionale che è stato un passaggio epocale tra due mondi diversi, verso la globalizzazione che ha fiaccato i più anziani e ha squalificato i giovani che per ventura si ritrovarono ad attraversare quel valico: “Secondo me, oltre alla crisi economica che ha portato a non poterti sobbarcare i costi del negozio, a parte questo aspetto meramente economico, secondo me ciò che ha fatto chiudere più di un negozio qui a Palermo è che molti dei proprietari dei negozi di dischi, ormai di vecchia guardia, incapaci di aggiornarsi e stare al passo con le novità e le cose che potevano acchiappare il pubblico di nicchia – ho visto con i miei occhi – sono stati presi da una certa stanchezza!Erano, dopo trent’anni di attività, stufi. Si sono lasciati morire, avrebbero potuto tentare, ma si sono lasciati morire l’attività tra le mani, prendendo solo i dischi con cui sopravvivere, la compilation sanremese di turno per esempio, pensando che sono quelle che fanno i numeri, sottovalutando il fatto che è la nicchia a fare numero e che ti permette di non chiudere. Però aggiornarsi, stare al passo con la musica, capire cosa è di nicchia, cosa è valido, non è facile. Ci sta che dopo trent’anni di negozio aperto uno non ce la fa più, ma anche per questo ci stava che avrebbero dovuto passare l’attività a mani più giovani. Doveva esserci un cambio della guardia, e secondo me avrebbe dato la possibilità di sopravvivere a molti. A me è capitato proprio questo.”
La storia di Bizio Rizzo è quella invece di un musicista orgoglioso della sua anarchia interiore, dell’ingenuità mai rinnegata con cui in soli due anni visse il sogno incommensurabile di aprire un negozio di dischi: “ (…) è sempre stato uno dei miei sogni quello di chiudersi in questi posti piccoli, umidi e fumosi, rovistare negli scaffali, tra i vinili…” e quando iniziamo a parlare della sua attività, con la calma di un soldato sconfitto, ma sereno, spiega con poche parole ciò che conta: “Si chiamava Record Sucker, nata alla fine degli anni ’90. Eravamo io, Joe Cottone mio carissimo amico e socio, e mia sorella Simona che ci aiutava. E niente, una grande passione per la musica indipendente, per il punk, per la musica elettronica più pesante che negli anni ’90 entrava nel suo vivo e si faceva conoscere anche alla gente che suonava, perché allora c’era questa distinzione tra il rock suonato e la musica elettronica per ballare. Poi negli anni ’90 c’è stato il mix che ha fatto sì che nel 2000 i grandi concerti siano diventati quelli dei Dj. Noi trattavamo solo etichette indipendenti, prevalentemente vinile. Tenevamo cd solo di quello che non usciva in vinile. Grande attenzione per le produzioni italiane, le autoproduzioni… si vendeva poco, anche perché eravamo troppo ingenui, non eravamo bravi commercianti. Il nostro approccio è stato troppo poetico, di passione, troppo naif. Alla fine degli anni ’90 culturalmente Palermo stava abbastanza bene, però non si compravano molti dischi perché se era presto per un circuito veramente alternativo di vendita, era però troppo tardi per il volume di vendita di dischi. Negli anni ’80 tutti compravano dischi, ma alla fine degli anni ’90 i ragazzi iniziavano a comprare meno dischi perché ormai legati ad altre cose (…).”
A questo punto Bizio si è infervorato, non è più misurato come all’inizio, adesso parla come un fiume, ha tante cose da dire, ha tante idee da condividere, tanto piacere nel raccontare, e ogni frase è densa, difficile da non riportare: “Era una passione. Se fossimo riusciti a resistere in quegli anni magari ora… magari con un grosso catalogo on line… Ma avevamo un approccio molto poco professionale, devo dire la verità. Sono stati due anni bellissimi, ma abbiamo chiuso prima di fare debiti. Per chi è appassionato di musica è il lavoro più bello del mondo: io mi alzavo la mattina, andavo, alzavo la saracinesca, mettevo un disco, facevo quello che facevo a casa mia tutto il giorno, solo che ero lì a lavorare. Io aspettavo i dischi nuovi che arrivavano da tutte le etichette indipendenti importate direttamente dall’America. Noi eravamo veramente di nicchia: da noi trovavi dischi noise, punk, hard-core punk, post- rock, elettronica sperimentale, da noi venivi a comprare i dischi delle etichette. La gente arrivava, portava le birre… ascoltavi musica e stavi lì a chiacchierare, chiacchierare, un sogno! Si parlava di tutto, fondamentalmente di musica ovviamente. Il nostro slogan era “Da noi i dischi si ascoltano”. La gente veniva, ascoltava musica insieme, restava a parlare per ore e ore e magari poi usciva con un disco! Una volta i negozi di dischi erano così. In quel periodo comunque c’era a Palermo una fertilissima scena musicale alternativa, e attorno a noi si è creato il giro punk rock di Palermo. Il negozio era il luogo di incontro (…) Breve, ma bello.”
Bizio senza illusioni è però un uomo soddisfatto, un uomo che continua a vivere di musica, con un suo gruppo (i Kali Yuga) sempre orgogliosamente indipendente: “Il mercato è cambiato. E’ stupido a livello musicale entrare in una logica da contratto discografico. Ora è molto più facile campare con la musica rispetto a prima, basta spostare l’interesse (…) Basta capire dove è la musica! Anche da casa tua se hai talento, belle idee e sei uno smanettone, con le varie piattaforme musicali e i social network, puoi avere uno zoccolo duro di fan che può farti guadagnare e vivere con la musica che fai, se sei bravo. Se non sei bravo… sei tra il milione di persone che vomita in rete la sua musica, e che non si caga nessuno perché fa cagare, parliamoci chiaro! Chiunque può fare un disco, quindi c’è un sacco di immondizia, ma tra quintali di immondizia il diamante ci sarà sempre. E se uno sa coniugare le due cose non ha più bisogno come prima della casa discografica, del contratto. Il contratto è un’utopia, è da sfigati oramai cercare questa cosa. Firmando un contratto avrai un anticipo per fare dei dischi che poi non venderanno, sarai vincolato a loro e scaricato entro due anni, perché i tuoi dischi non venderanno quanto serve a loro per riprendere le spese investite su di te. Incasserai dei soldi all’inizio per poi distruggere le tua carriera musicale. (…) Se sei invece uno che fa musica indipendente e crede in quello che fa, se hai la forza e la voglia, porti avanti la tua musica e con il tuo giro puoi creare il tuo piccolo guadagno e far sì che la gente scarichi la tua musica e venga ai tuoi concerti. Mi dispiace moltissimo da un certo punto di vista, perché la gente come me che ha tentato di realizzare il sogno di un negozio di dischi ora sa che è un lavoro che esiste solo in certe situazioni e luoghi. Se fossero tutti come me il mondo sarebbe pieno di discherie come negli anni ’60, ’70, ‘80.”
Quando parliamo del vinile è difficile non condividere il lirismo di Bizio: “È l’oggetto più bello del mondo. Tu ci hai mai pensato? Uno compra – e quindi io vendevo – un oggetto che è bellissimo, perché ha una grafica stupenda, è di un materiale plastico vintage, e suona! E’ un oggetto che suona, un oggetto che ha due vite! (…) il vinile è un oggetto che è qualcosa di più, perché è vivo! Non metto in dubbio l’emozione che ti può dare un quadro, una scultura, un bel mobile, una bella lampada… ma vuoi mettere la soddisfazione che ti dà un oggetto che suona? (…) È il supporto fisico digitale che è in crisi, perché se guardi le statistiche delle vendite dei vinili nel mondo, il vinile sta ricominciando a vendere, ha il segno più, mentre il cd ha il segno meno, perché il cd fondamentalmente non ha più senso. Se vuoi un supporto digitale, te lo scarichi e te lo masterizzi, perché mi devo comprare un cd? (…) Io sono convinto di una cosa: il cd da quanto tempo esiste? Il cd sta morendo e sarà una di quelle cose che nell’immensità della storia umana sarà dimenticata! E’ una di quelle grandi bufale dell’industria, hanno inventato questo supporto che doveva essere il cambiamento… e invece dopo solo otto anni del ciclo del cd è nato l’mp3 che è il vero cambiamento(…) fra dieci anni il cd non esisterà più e se lo saranno scordato tutti, fra dieci anni invece ci sarà il vinile! (…) Sono stato a New York l’anno scorso il giorno del Record Store Day e ti posso dire che a New York i negozi di dischi funzionano benissimo, e vendono solo vinile. E’ New York, è il mondo in una città, ma ho passato giornate intere a girare per i negozi di dischi e vedevo tutti, dal ragazzino al quarantenne-cinquantenne che finisce di lavorare, gente in giacca e cravatta e ventiquattro ore, che andavano a spulciare e a comprare il vinile. Questo gesto nelle grandi metropoli, dove la cultura è valorizzata, è rimasto. Parliamoci chiaro: il vinile, quindi la musica, è cultura, cioè arte. In città come Parigi, New York, la stessa Roma, per fare degli esempi, l’arte rimane un valore importante anche per le istituzioni. A Palermo non si vendono dischi perché l’arte, partendo dalle istituzioni, non esiste, non è valorizzata. La gente non è educata all’arte, al bello. Guardati attorno: le strade, l’urbanistica, i palazzi, la favolosa bellezza del nostro centro storico deturpato per anni… la cultura politica di questa città è sempre stata quella del cemento, soldi, mazzette, mai la valorizzazione dell’arte!”
Con Giampaolo Principe abbiamo parlato nel suo locale, lo Zsa Zsa. Durante la nostra chiacchierata il locale è chiuso, le bottiglie al bancone si riposano, le luci abbassate riempiono la sala del silenzio che verrà sostituito più tardi. Nel silenzio Giampaolo parla della sua esperienza, dei primi anni di adolescenza, degli anni ’90, di una Palermo piena di gruppi musicali, di concerti: “Quante persone si sono conosciute nelle discherie? Quanti gruppi sono nati? È impressionante quante storie di vita e di musica hanno ruotato intorno alle discherie. (…) Io ho toccato con mano cosa significa lo scambio. A me i clienti hanno insegnato un mare di cose. Hai presente quello che avviene con internet… ebbene noi eravamo dei server men, noi mettevamo in relazione le conoscenze che si acquisivano, le persone, la musica, prima ancora di internet (…).”
Ricorda ancora quando il padre, Salvatore Principe presente nella prima parte di questa inchiesta, gli propose di lavorare nel loro primo negozio, Super Sound. Aveva 15 anni, era finita la scuola, era estate, cioè tempo di mare e vacanze, ma senza tentennamenti Giampaolo aveva accettato: “Sono andato un mese ad affiancare la persona che lavorava con noi in negozio e quando lui è andato in ferie, mi sono fatto tutta l’estate a lavorare in discheria: il lavoro più bello del mondo! Vendi dischi… opere d’arte complete!” E ricorda quanto fosse “una cosa normale, per tutti – per tutti! – uscire il sabato pomeriggio, andare a comprare un jeans, una camicia, un paio di scarpe, passare in discheria e comprare un paio di Lp. La normalità del consumo era questa.” Giampaolo non usa mezzi termini pensando alla situazione odierna, e la tratteggia con toni cupi: “Siamo cambiati come esseri umani, non è solo un impoverimento culturale (…) Una volta la musica era argomento di conversazione, oggi non se ne parla come prima. Apri la cartella di file, la metti sotto fondo e fai altro. La musica oggi non fa più crescere! (…) La cosa che mi ricordo in maniera viva, nell’ultimo periodo, è stato che si è passati dall’interesse per i buoni impianti stereo ai lettori mp3 più capienti!” Eppure internet all’inizio aveva fatto sperare in una nuova stagione capace di coniugare la passione musicale al merito, alla qualità della scelta ultima, e volendo ad affari come non se ne erano fatti mai: “(…) Durante i primi tempi di internet, prima che le cose si deteriorassero a livello economico, chi era nelle condizioni di ascoltare la musica che gli interessava, ascoltava, si faceva un’idea e decideva cosa comprare. In fondo, finché si è lavorato bene, chi era abituato a comprare dischi, ne comprava anche tre a settimana: ricordo che mi portavano le liste di cose che erano riusciti a scoprire tramite internet. E io potevo trovare tutto a chiunque, chi cercava il disco introvabile da noi lo trovava! Chi conosce l’affezione all’oggetto disco, più conosce più compra! Chi poteva conoscere determinati artisti sceglieva di comprarli. Tante etichette indipendenti hanno fatto la loro fortuna con la rete. (…)” Poi la catastrofe, apparentemente senza spiegazione: “Quando è diventato difficile mandare avanti il negozio, lì è diventato solo lavoro. Il fatto di non scendere a determinati prezzi quando si consigliava di farlo… mi induce a pensare che la crisi sia stata pilotata… Ad un certo punto erano i manager che facevano da padrone… gente che così come vendeva scarpe o saponette voleva vendere anche dischi! Non erano come i vecchi delle case discografiche italiane storiche, gente che aveva sempre e solo venduto musica e sapeva come funzionavano determinati meccanismi e che aveva anche orecchio musicale. Ai nuovi manager invece non gliene fregava niente della musica, a loro interessava solo un altro affare con il quale fare numeri! (…) questa gente prediligeva il rapporto con le grandi superficie, non interessava il rapporto con la piccola discheria. (…) i manager vendevano agli ingrossi, alle catene di elettronica che dopo tre mesi facevano il reso della merce non venduta. Siccome le case discografiche dovevano fare budget riproponevano i dischi non venduti nei grandi magazzini come allegati con le riviste. Così a me discheria capitava di avere un disco esposto in negozio a 40 mila lire, e lo stesso disco in edicola allegato alla metà del prezzo. Questa concorrenza è stata massacrante!”
Quello che raccontava già il padre Salvatore. Scenario indicato anche da Taormina, Sergio Cataldi, Bizio Rizzo… una disamina impietosa, cruda, senza fronzoli su un’assoluta disfatta culturale e sociale che in una città debole come Palermo ha esasperato un trend mondiale anticipando forse, come spesso è stato nel destino di questa città, il deserto morale di un’intera civiltà. Eppure è troppo arduo dire l’ultima parola sulla guerra perduta delle discherie. Perché quando le macerie di una guerra sono ovunque, è difficile trovare la parola esatta che descriva la disperazione. Puoi ricostruire la dinamica, puoi riprodurre come in laboratorio le sequenze delle esplosioni, il primo crollo, il secondo, l’onda d’urto. Ma non puoi trovare il senso, come non puoi ritrovare le strade sotto il cumulo del disastro.
Tuttavia i toni spesso tragici che ha trovato Giampaolo Principe – e tutti gli altri intervistati – per raccontare la sua amarezza (“Abbiamo perduto questa battaglia”, “La città è maledetta!”, “La cosa triste è che dobbiamo parlare di soldi quando parliamo di musica!”, “La festa è finita!”) sono stati superati e in parte cancellati dall’amore e dalla passione con cui parla ancora di musica, della gente che ha fame di concerti, degli appassionati che cercano dischi, delle imprese a perdere messe in campo per organizzare ancora eventi musicale, di quelli che ancora ci credono, di suo figlio di pochi mesi che si calma ascoltando un disco di Jimi Hendrix. Musica, musica e sempre, gloriosa, eterna, amata musica.
Giampaolo alla fine del nostro incontro ha sentito il bisogno di inviarmi una mail perché non voleva finire in parole di tristezza un argomento che per lui ha significato gioia, pura felicità, giovinezza. Credo che non me ne vorrà se trascrivo quest’aggiunta del cuore come sigillo dell’inchiesta condotta in queste settimane, perché anche io non vorrei lasciarvi con il senso di sconfitta totale che i grandi fallimenti portano con sé, ma lasciarvi con parole che hanno la forma di un semino, un semino che resta sepolto nel buio, e che forse un giorno per chi vorrà, chissà come chissà quando, porterà i frutti di un insegnamento: “Alla fine di tutta la storia delle discherie, noi siamo quelli che abbiamo dato tutto e che ne siamo usciti con le ossa rotte, fra debiti e amaro in bocca. Ma come in tutte le grandi storie d’amore, tantissimo abbiamo imparato e ricevuto, e tantissimo dobbiamo a quello che abbiamo avuto la fortuna di fare…”
Fine
(Stefania Italiano)
La guerra perduta delle discherie di Palermo. Parte 1
20 aprile 2013