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Esperimento mentale: è possibile immaginare un brutto album composto da Antony? E in caso di risposta affermativa, quale forma potrebbe assumere? Un artista, per una volta nel senso pieno del termine, ormai simbolo non solo di un intero periodo musicale, ma capace di riallacciare rapporti con un mondo che sembrava perduto, a partire da uno spiccato senso “classico” della composizione, per arrivare ad una figura assurta al ruolo di icona paragonabile, e non a caso, a quelle che solo la Factory di Andy Wahrol era in grado di creare. Ecco, in che senso un tale personaggio può produrre una delusione?
“Swanlights” accoglie l’ascoltatore con l’inconfondibile voce di Antony che irrompe dal nulla accompagnata da una scarna base pianistica: è “Everything Is New” ma, in realtà, tutto è come al solito. Una ballata struggente, che cresce con l’entrata degli archi e sembra restituire le sensazioni degli album precedenti. Seguono la chitarristica “The Great White Ocean” e “Ghost”, ed è qui che qualcosa inizia a non tornare: la struttura non varia rispetto alle prove passate, lo stile è ormai consolidato, ma Antony ed i suoi Johnsons non riescono a toccare le solite corde emotive, e le canzoni si perdono in un inaspettato dimenticatoio dopo pochi minuti. L’incedere “allegro con brio” di “I’m In Love” non muta il quadro di questa prima parte del disco, inequivocabilmente sottotono.
Dopo il breve intermezzo costituito da “Violetta” arriva, provvidenziale, la title track, un po’ la “Like Spinning Plates” di Antony: canzone oscura, dolente, retta da un sottile ed elegante tappeto sonoro, forse il pezzo più riuscito dell’intero album. Il crescendo che caratterizza la successiva “The Spirit Was Gone” al contrario non convince del tutto, ancora una volta non perché il pezzo sia brutto o mal scritto in senso stretto, ma per una sorta di deficit emozionale che connota il mood complessivo del disco. “Thank You For Your Love” è l’ideale colonna sonora del vostro tradizionale matrimonio transgender, con passaggi da pura cerimonia, da festa della libera differenza: un gran pezzo, segnato da una batteria di matrice tipicamente johnsoniana.
Si arriva così a “Flétta” che è il manifesto ideologico-artistico dell’album: frutto della collaborazione, che non inizia oggi, con Bjork, questa traccia squaderna le contraddizioni latenti nelle canzoni precedenti. Composizione ancora a tratti originale, sconta un duetto proposto dai due in chiave “Live Aid”: ascoltando gli artificiosi cori e raddoppi tra le due voci non è difficile immaginare una esibizione live corredata da sguardi ammiccanti che sembrano voler dire “non stiamo facendo solo grande musica, ma anche del bene”. Inusuale per Antony che ha fatto di uno stile art pop ma compiutamente antiretorico, in questo, ma non solo, a bottega dal maestro Lou Reed, la cifra della propria opzione interpretativa. Chiudono “Salt Silver Oxygen” e “Christina’s Farm”, due buone canzoni, in particolare quest’ultima che, riprendendo la reiterata linea della prima traccia, torna a ricordare i picchi dei dischi precedenti.
Forse si pretende troppo da Antony Hegarty: si cerca nella sua musica la spiegazione, la manifestazione tangibile di sensazioni e emozioni come la felicità e lo stupore, il dolore e la frustrazione, il ricordo degli amori perduti, la promessa e la speranza in quelli futuri, la paura della perdita, il timore del mutamento. Si vuole trovare nella sua opera una qualità estetica ed emotiva che parli di noi, che sconvolga durante l’ascolto, che mostri il bello ed il sublime. Davvero eccessivo.
Il fatto è però, che nelle precedenti prove di Antony & The Johnsons tutti questi elementi erano presenti, parte caratterizzante dell’arte di questo ensemble antimoderno.
“Swanlights” in effetti non è un brutto album, per molti versi è un album buono, a tratti molto buono, ma non sconvolgente: e proprio per questo rappresenta un passo indietro.
(Francesco Marchesi)
Collegamenti su Kalporz:
Antony And The Johnsons – The Crying Light
Antony And The Johnsons – I Am A Bird Now
6 dicembre 2010