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D’acchito verrebbe da dire “che bel disco di merda”. La stessa merda con la quale gli Zen Circus avrebbero sotterrato il populismo bieco e ottuso di un Italia che non riesce a rialzarsi. Appino me lo ricordo sbarazzino che mi scarabocchiava un bel cazzo sul retro copertina di Nello Scarpellini. Però gli anni passano e si arriva a credere di assomigliare sempre più a un contenitore di verità piuttosto che continuare ad inglobarla. Un “testamento” che dice e ridice le stesse cose. L’infanzia di provincia, il Dio che non esiste, la voglia di evasione e la non sottomissione. Analisi superficiale e rima baciata, Valente e Favero del Teatro degli Orrori per donare spessore a qualcosa che, purtroppo, non interessa a nessuno; e cioè la crescita di un ragazzo che si rende conto di non avere più vent’anni (e quando li aveva, a sua detta, era un grandissimo stronzo).
Non è solo questo però; lo splendore degli Zen deriva(va) da quell’approccio quasi menefreghista verso una vita che loro non volevano accettare; oggi arriva il momento di fare i conti con la propria coerenza e Appino vuole dimostrare di essere un uomo. Senza rinnegare, per carità, il proprio passato, ma dilungandosi a spiegare in maniera prolissa concetti ormai espressi in album meravigliosi.
Quello che manca ne “il Testamento” è una linea guida, il lume, il genio, la pazzia, la lateralità di chi decide di osservare dai bordi. Un disco che suona come una confessione col volume alzato (qui forse, la mano di Favero è andata giù un po’ troppo pesante, facendo assomigliare il tutto all’ultimo, bruttissimo, Teatro degli Orrori).
Analizzando il disco brano per brano però non tutto è da buttare; la title track che apre è intensa, “La festa di liberazione” è una ballad folk fra Dylan e un qualsiasi menestrello che accarezza con ironia le sorti della vita e la chiusura di “1983” è una delicata ninna nanna che deflagra in una elettronica da club in scemare. I miei genitori però mi hanno sempre insegnato a non avere peli sulla lingua e così affermo che il passo falso del songwriter toscano è dovuto certamente ad un eccesso di maturità.
Che a volte è ben accetta, ma non dovrebbe limitare l’urgenza, che sia punk o solo un disegno fallico su di un muro scrostato.
50/100
(Nicola Guerra)
24 aprile 2013
1 Comment
Stefano Solaro
Mi permetto di dissentire da Nic, il Testamento non è un grande disco, ma non credo si meriti un giudizio così impietoso. La seconda parte è debole rispetto alla prima, ed in generale l’album è logorroico e in alcuni punti un po’ “pasticciato”, è vero. Ma il valore indiscutibile di alcuni brani (soprattutto quelli citati da Nic, la bellissima title-track e “La Festa della Liberazione”) conferma Appino come uno dei migliori autori dello Stivale. Questo disco resta un episodio interlocutorio, senza dubbio inferiore a quanto fatto con gli Zen Circus, ma una sufficienza abbondante io gliela avrei data.