Share This Article
Una band come i Depeche Mode, con all’attivo tredici album e mai un colpo realmente assestato male, cosa dovrebbe mai dimostrare nel 2013? Di non essersi trasfigurati in uno di quei gruppi che campa sulle spalle dei propri fans anziché sul proprio –ormai esaurito- talento, come gli U2 ci insegnano?
O forse alla base di “Delta Machine” v’è solo la genuina volontà di porsi al passo coi tempi con l’umiltà di artisti mai davvero sazi di apprendere, senza dover riproporre ataviche auto-commemorazioni dei propri fasti? Eppure a Martin Gore, Dave Gahan e Andy Fletcher sarebbe bastato riproporre qualcosa del loro fulgido passato, resuscitandolo talora da “Black Celebration” talora da “Violator”, o magari aggrapparsi alle sonorità non del tutto incisive del loro penultimo lavoro, “Sounds of the Universe”, che aveva lasciato scontenti i più.
Invece no. I DM si reinventano ancora una volta. Ma prima ci annebbiano con un singolo di lancio, “Heaven”, che ci riporta alla mente le loro ballate più tradizionali, grazie ad un sound elegantissimo e malinconico, per poi sbatterci nelle orecchie pezzi freddi e aggressivi come “Angel”, forte di un incedere disturbato e oscuro, col prepotente suono dei bassi in primo piano. Per non parlare degli irresistibili groove di “Secret to the end” e “Should be higher”, su cui si va a spalmare la voce sensualissima e sempre perfetta di Dave Gahan, come se il carisma e l’appeal di Bryan Ferry fossero stati fatti prigionieri all’interno di un futuristico corpo robotico.
Ascoltando “Delta Machine” senza pensare al passato della band si ha l’impressione che i Depeche Mode abbiano fatto questo genere di musica da sempre. Perché c’è tanto mestiere in questi pezzi, ma anche una bravura sincera e a proprio modo innovativa. Anche se molto spesso ci si trova in un territorio limitrofo a quello di artisti quali Patrick Wolf o, ancor di più, ai frattali ambigui e perniciosi di IAMX. E’ un album dall’inclinazione fortemente electro-industrial dunque, abrasivo come non li si sentiva da tanto anche se, come ricorda Gahan in una delle sue più recenti interviste, ai Depeche Mode piace sporcare il proprio suono. E’ il loro marchio di fabbrica. Ed è insostituibile, qualsiasi lido musicale decidano di voler raggiungere, magari anche solo per pura vezzosità.
Questo non significa però che “Delta Machine” sia carente di melodia, anzi. Ascoltare “Broken” per credere; la canzone in questione altro non è che la sublime apoteosi di una ricerca melodica pregna di quella mestizia liberatoria prettamente depechemodiana. Scritta da Gahan, “Broken” è forse l’unico episodio dell’album che ci riporta per un istante negli anni ’80, accogliendo la magia dei Depeche Mode più oscuri ed espressivi.
Un brano perfetto, in cui tutto è al posto giusto. Anche il dolore. E il verso “get lost in your sounds” non avrebbe potuto rendere meglio l’alienazione lucidissima e complessa di qualcuno che era “distrutto sin dall’inizio” e da sempre consapevole della propria involontaria perdizione.
E se, tra qualche vago sentore di Nick Cave e Trent Reznor, immersi in modernissime atmosfere brumose, crederete di aver sentito tutto di quest’album, forse vi siete persi “Slow” che, nella sua languidissima semplicità, rappresenta uno degli episodi più originali e godibili dell’album. I riferimenti sono apertamente blues, sommersi da una marea di elettronica che più conturbante non si può.
No, neanche adesso abbiamo ascoltato tutto di questo disco. Perché “Delta Machine” costituisce un ingegnoso ingranaggio futuristico che necessità di più ascolti prima di rivelare tutte le proprie intenzioni. Vi sono sfumature che non verrebbero mai messe in risalto da un ascolto superficiale. E’ diretto, senz’altro, e colpisce dritto allo stomaco, ma è anche un lavoro traboccante di una profonda sensibilità artistica e musicale. Un disco poliedrico insomma, con due chiavi di lettura che in un certo senso potrebbero essere viste come contrapposte l’un l’altra.
Ma non fatevi ingannare, “Delta Machine” è un disco di armonia.
74/100
(Raising Girl)
20 aprile 2013
1 Comment
roaming
ma perchè i DM non vivono sulle spalle dei loro fan dal lontano 1998? cioè dopo Ultra? chi altro acquista o apprezza i loro lavori? i fan, quelli die-hard, a tutti gli altri scivolano via….