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Un decennio fa, o poco meno, il nome di Devendra Banhart sembrava resuscitare ectoplasmi di passati hippie, con le scorie del pre-war folk che invadevano l’etere, a dimostrazione apparente di come Banhart volesse confrontarsi con ere musicali dimenticate dai più, riscoprendone e glorificandone l’urgenza contemporanea, qualunque essa fosse. Era il tempo dei due album gemelli “Rejoicing in the Hands” e “Niño Rojo”, e prima ancora dell’interminabile (per lo meno nel titolo, per quanto il disco si stiracchi fino all’ora di durata, o giù di lì) “Oh Me Oh My… The Way the Day Goes By the Sun Is Setting Dogs Are Dreaming Lovesongs of the Christmas Spirit”, e i compagni di ventura dell’anarcoide apolide con nome da divinità Indù e discendenze venezuelane e statunitensi erano i Vetiver, le Cocorosie, la “vecchia” gloria Vashti Bunyan e l’uomo orchestra/vagabondo del Dharma Entrance. A giudicare dall’ascolto di Mala, si sta davvero parlando di preistoria: ora Banhart accompagna in tournée Neil Young, e delle freakerie da duro e puro del folk non sembra volersi minimamente preoccupare. Anche episodi dimenticabili come “Cripple Crow” e “Smokey Rolls Down Thunder Canyon” (per tacere educatamente del pessimo e retrivo “What Will We Be”, partorito nel 2009 prima del blocco creativo che ha silenziato Banhart sulle platee internazionali per quasi quattro anni) dove il giovane cantautore flirtava senza particolare ispirazione con memorie deformi dell’Incredible String Band di Robin Williamson e Mike Heron, sembrano oramai alle spalle.
Il Devendra Banhart di “Mala” è un songwriter assai più propenso alla poliedricità, e basta ascoltare i primi tre brani dell’album per rendersene definitivamente conto. “Golden Girls” è un breve intro carico di ansia newyorchese, con voce ectoplasmatica e giro ossessivo di chitarra, “Daniel” sprizza tenerezze vagamente jazzate, con tanto di coretti estatici a supportare la voce del cantante, “Für Hildegard Von Bingen” (il singolo di lancio dell’album) guarda sì al Bob Dylan di “All Along the Watchtower” ma lo porta in uno spazio siderale, in cui la voce si perde e il folk viene screziato da scorie labilmente elettroniche. Il nuovo Devendra Banhart è una creatura a metà tra il neo-dandy amante della natura e l’artista metropolitano: mai la musica del trentaduenne statunitense si era meticciata così tanto con le pulsioni urbane. Per quanto l’ascolto di “Mala” si dimostri piacevole, non privo di momenti di notevole ispirazione (la minimale coperta di “A Gain”, la semplicità pop di “Won’t You Come Over”, e soprattutto “Cristobal Risquez”, che sembra uscita dalla mente di Stephin Merritt), l’impressione è che la maturazione autoriale di Banhart sia ancora in corso d’opera. Dove porterà, è davvero difficile da pronosticare. Ma forse è proprio questo il bello…
69/100
(Raffaele Meale)
5 maggio 2013