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Dopo l’esperienza positiva dell’EP “Turns Turns Turns”, in “Impersonator” i Majical Cloudz abbandonano parzialmente la sperimentazione elettronica più spinta verso il glitch, tipica di artisti limitrofi quali Doldrums, Blue Hawaii e Grimes, con cui i nostri hanno collaborato in più brani, per approdare ad una sensibilità matura – e talvolta dolente – che riporta alla mente quella di Antony Hegarty (“Childhood’s end”). O forse addirittura a quella mite e fugace di Elliott Smith, che Devon Welsh, producer canadese che sta dietro al progetto Majical Cloudz insieme al connazionale Matthew Otto, definisce come la più grande influenza di quest’album, seguendo un concetto di “musica minimale” che corrisponde semplicemente a quella musica che non arriva a sovraffarti.
Musica pura, capace di martellare nella mente con la sola forza della propria onestà. Musica costruita sulla legge del “comunicare molto col minimo possibile”, in cui non v’è spazio per eccessi di parole, per beat claudicanti, per drop pesanti. Un piacevole ritorno all’essenzialità, a quella snellezza che non appare mai nugale e che anzi, avvolta in un diafano velo elettronico, lascia trasparire una struttura quasi classica. Un po’ come il James Blake più tradizionale, quello di “Give me my month”, per intenderci. Si ascoltino, a tal proposito, brani semplici ed estasianti come “This is magic” e la conclusiva “Notebook”. O ancora “Bugs don’t buzz”, la cui storia ha inizio nel 2008: Devon la compone al piano ma la canzone rimane abbandonata per anni, finché un amico non la trova nel suo PC, riportando così alla luce, e alla memoria del suo fautore, un piccolo diamante grezzo. Devon e Matthew decidono dunque di riprenderla e apportare alcune lievi modifiche che ne rivelano tutta la bellezza malinconica ed emozionante. Lo stesso Welsh lo considera uno dei suoi pezzi più intimi e personali e non manca di suonarlo ad ogni live.
In definitiva, si tratta di canzoni, quelle di questo “Impersonator”, che rimangono tutte sospese tra un’atmosfera minimal mai spigolosa e l’amore dichiarato per una sorta di indie-pop morbido e accorato, cui piace interrogarsi sulla propria solitudine e l’alienazione come essenza imprescindibile di sé e degli altri, e magari rivangare sprazzi di un’infanzia sfiorita che non potrà mai trovare pace, se non in laconiche melodie catartiche…
78/100
(Raising Girl)
29 maggio 2013