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“Potevano anche trovare un nome più originale!” È probabilmente questa la primissima riflessione che salta in mente quando si pensa al Berlin Festival. Organizzata per la prima volta nel 2005, la rassegna musicale berlinese non ha mai ingranato del tutto. Sarà forse per questo che gli organizzatori questa volta hanno deciso di puntare sull’usato sicuro, anzi sicurissimo. Pet Shop Boys, Blur, Bjork, a leggere i nomi dei main act sembra quasi che l’edizione 2013 del Berlin Festival sia stata una sorta di parata di “vecchie glorie” per fan nostalgici. E se si guarda al pubblico presente nelle primissime file durante l’esibizione dei Pet Shop Boys probabilmente l’affermazione non è lontanissima dalla verità. Sia chiaro, non si vuole qui esprimere nessun giudizio sulla qualità artistica delle principali proposte musicali del festival, la maggior parte delle quali di ottimo livello. Quello che si vuole evidenziare in questa sede è come il festival che si tiene nella splendida cornice dell’ex aeroporto di Tempelhof stenti ancora a trovare una sua precisa identità.
Il primo giorno offre subito un appuntamento interessante, con l’esibizione dei Parquet Courts alle 16 sul Pitchfork Stage. La band di Brooklyn conferma tutto quello che di buono si dice di loro, con un’ora di rock tiratissimo, strabordante di chitarre affilate come coltelli e di hooks assassini. Il batterista indossa una maglietta dei Dinosaur Jr., quasi una dichiarazione d’intenti per una band che rielabora con un gusto del tutto personale la lezione dei mostri sacri del garage. Promossi a pieni voti.
Non convince altrettanto l’esibizione di Villagers, sempre sul Pitchfork. Anche a causa di qualche problema dell’impianto sonoro il suo folk cantautorale sembra arrivare da lontano, anzi da lontanissimo, passando veloce come una delle tante folate di vento, senza lasciare però alcun brivido. Appena più dilettevole la prova della band svedese The Sounds, sul palco principale, con il loro mainstream rock a tratti sporcato da venature dark e wave. Subito dopo è il turno di MIA., che molti scoprono, tra le imprecazioni generali, non essere la M.I.A. di “Paper Planes”. Simpatici scherzi della punteggiatura o malinteso creato ad hoc dagli organizzatori? Non lo sapremo mai, fatto sta che la band di electro-pop berlinese si esibisce in uno show la cui peculiarità principale è rappresentata da delle coreografie talmente cafone da far impallidire Er Piotta.
Smaltita la delusione per l’equivoco causato dall’omonimia, gran parte dei presenti si riversa sotto il palco in attesa dei Pet Shop Boys. Che dire, l’immortale band di Londra regala a tutti un live eccellente, a tratti quasi esaltante. Il duo britannico ripropone tutte le hit che hanno fatto la storia del synth-pop, mentre i ballerini e la splendida messinscena contribuiscono a fare dell’esibizione uno di quegli show di cui non ci si dimentica facilmente. Alla fine sembrano tutti entusiasti e perfino gli indifferenti e i detrattori capiscono come mai i Pet Shop Boys hanno ricevuto qualche anno fa, era il 2009, il premio alla carriera per il loro straordinario contributo alla musica.
Tuttavia il momento clou della serata, almeno per chi scrive, arriva poco dopo, con il concerto dei Blur. Davvero difficile trovare le parole per descrivere l’emozione di vedere per la prima volta live una band che ha segnato in maniera indelebile un lungo periodo della propria vita. Il quartetto simbolo del britpop poi fa davvero di tutto per rendere speciale la serata delle migliaia di fan accalcate sotto al palco, tirando fuori dal cilindro un concerto da brividi. Damon Albarn sembra un ragazzino, corre da una parte all’altra, salta, si dimena. La voce è quella di sempre, quella che ci ha accompagnato come un’amica fedele dalla prima metà degli anni ’90 fino ai giorni nostri. Anche gli altri membri della band non sono da meno. Graham Coxon tormenta la sua chitarra dall’inizio alla fine (oltre ad essere impeccabile al microfono durante “Coffe & TV” e tutti i backing vocals), Alex James ha lo sguardo sornione e la grande presenza scenica di sempre, Dave Rowntree, malgrado qualche chilo di troppo, pesta come uno scellerato sulla sua batteria. Il gruppo britannico esegue tutti i pezzi storici, da “Girls & Boys”, a “Tender”, passando per “Beetlebum” e “Country House” per un unico, epico sing-along, ai limiti della cerimonia collettiva. Quel che resta alla fine, dopo gli accendini di “The Universal” e il pogo di “Country House”, sono un sorriso inebetito ed un groppo in gola difficile da sciogliere.
Dispiaciuti per non aver seguito il live di John Talabot (ma voci attendibili diranno di una prova come di consueto su alti livelli), ci si dirige quindi all’after-party all’Arena Club e qui arrivano le note davvero dolenti. Come se non bastassero le defezioni di Dj Shadow e Royksopp (quest’ultima giunta all’ultimissimo minuto), a rovinare l’umore del pubblico ci pensano il live pretenzioso e inconcludente del producer tedesco Siriusmo e l’esibizione prettamente canora (?!) di Miss Kittin. Archiviato l’afterparty come malriuscito, malgrado un dj set di Boysnoize tutto sommato divertente, si torna a casa stanchi e un tantino infastiditi per le ore perse dentro l’Arena, mentre si poteva andare a riposare e a prepararsi psicologicamente per i live di Björk e My Bloody Valentine del giorno dopo.
Il sabato inizia un po’ in sordina con i live scialbi di Elle Goulding e degli svogliati Is Tropical (entrambi molto meglio su cd). A sollevare la situazione ci pensano le Savages che, di nero vestite, offrono un’ora scarsa di sovreccitato post-punk d’altri tempi. Doveroso menzionare poi voce e presenza scenica della cantante francese Jehnny Beth, che si muove sul palco con il carisma di un frontman navigato.
Mentre migliaia di tedeschi si agitano sulle note del rapper autoctono Casper, alcune centinaia di irriducibili aspettano in religioso silenzio il momento dei My Bloody Valentine. Verranno ripagati da un live perfetto, che si avvicina ad un vero e proprio viaggio sensoriale. L’imperioso muro di distorsioni si abbatte con violenza su tutti i presenti e per la successiva ora non resta che lasciarsi trascinare da quest’ondata di vibrazioni sonore. Ad occhi chiusi preferibilmente.
Per Björk si arriva in ritardo e si è costretti pertanto a seguirla da lontano. Ma non è necessario stare sotto il palco per godersi lo spettacolo visivo e la grande performance musicale di un’artista che da anni ormai non ha più nulla da dimostrare. Mentre sul megaschermo scorrono visual quasi lisergici e una quindicina di scatenate coriste/ballerine si dimena alle sue spalle, il folletto islandese pesca a piene mani da “Biophilia” e “Homogenic”, senza scordare i classici di “Vespertine” e l’immancabile “One Day”, dall’album di debutto. La bellissima “Declare Independence” chiude lo show e si fugge via di corsa prima dell’arrivo di Fritz Kalbrenner (grande la curiosità di scoprire chi sia il cervellone che lo ha piazzato dopo Björk) per andare ad ascoltare il live del sempre ottimo Pantha Du Prince. Dopo aver deciso d’ignorare volutamente il party all’Arena per la delusione del giorno precedente, la seconda giornata del Festival di Berlino si chiude con un validissimo aftershow del producer catalano Pional (fidato compagno di tour di John Talabot) al club Loftus Hall.
A distanza di un paio giorni dalla rassegna resta la soddisfazione per le esibizioni dei mostri sacri, ma anche la sensazione di un festival che sia ancora incompiuto, indeciso sulla direzione da intraprendere. Mainstream o rock d’autore? Vecchie glorie o nuove promesse? Fritz Kalkbrenner e la falsa MIA o Björk e MBV? Noi le risposte che vorremmo le conosciamo già.
Arrivederci al prossimo anno.
11 settembre 2013
(Stefano Solaro)
foto di apertura di Stephan Flad