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C’è puzza di rivolta in questi solchi. Non solo per il programmatico titolo “There’s a riot goin’ on”, ma per l’atteggiamento con cui Sly Stone e la sua allegra banda sfidarono il mondo. Un atteggiamento rilassato eppure carico di tensione, filtrato attraverso un groove cupo e narcolettico che addormenta la mente e smuove lentamente il corpo. Solo due anni prima si pensava di cambiare il mondo, guardando verso il cielo ricoperti di fango e stelle, le stesse che l’America stava oscurando con l’inutile guerra in Vietnam e la politica conservatrice di Richard Nixon.
In una situazione instabile che ghettizzava ancora il colore della pelle, la famiglia Stone dimostrava che l’unione fra razze e sessi, se l’obiettivo comune era quello di cantare i mali del mondo, avrebbe comunque smosso le coscienze. E se a distanza di anni, questo disco è ancora un baluardo bellicoso di un certo soul-funk psichedelico, vuol dire che l’oste (in quel periodo non ebbro di vino ma stonato di LSD) aveva fatto bene i suoi conti. Il tempo difatti non ha intaccato la chiara polemica dell’hit “Family Affair” nascosta da un ritornello orecchiabile, sexy e trascinate, con la voce calda di Sylvester Stewart (il vero nome di Sly) che si fonde con il soul in un duttile saliscendi di sensualità.
Quello che rimane e stupisce, in codesto gigante di espressionismo funk, è l’uso lascivo dei fiati e soprattutto dell’organo, che a dispetto del precedente “Stand” (1969) o del successivo “Fresh” (1972), comunque lavori onestissimi, gettano le fondamenta liquide di un suono che rappresentava le paure di una nazione. Non c’è spazio per divertirsi, non c’è spazio per ballare, piuttosto di sballare per dimenticare la capacità insita nell’uomo di distruggere anche la sua stessa natura. Perdersi nei battiti di “Thank You For Talkin’ To Me Africa”, districarsi fra le frange della lunga suite “Africa Talk To You (The Asphalt Jungle)”, dimenarsi nei campi di cotone cantando all’unisono il gospel di “Spaced Cowboy” e godere di sussulti erotici con “Luv N’ Haight” è ancora possibile; questa famiglia ha avviato una rivoluzione musicale convogliando in un unico suono la cultura americana di una certa soul music (Otis Redding e Aretha Franklin) con la black music che partiva da Marvin Gaye passando per James Brown fino ad arrivare ai groove infetti di funky di Geoge Clinton e dei suoi Parliament e Funkadelic.
Ha senso oggi ascoltare un disco che avviò una rivoluzione nel 1971? Ovviamente sì, perché le strade brulicano di gente con la camicia verde che ripete troppe volte la parola negro.
90/100
(Nicola Guerra)