Share This Article
“Fuzz” è un album iperrealista che ti tiene col fiato sospeso. Un disco consigliato dai migliori otorinolaringoiatri come rimedio per sciogliere tutto il cerume accumulato dall’ascolto di dischi patinatissimi, molto prodotti e poco suonati.
Ascoltato in macchina, mentre guidi, dopo i primi minuti d’imbarazzo e qualche incidente sfiorato ti domanderai seriamente se il meccanico non ti abbia montato un Fuzz-Tone Maestro al posto del carburatore durante l’ultimo collaudo.
Ascoltato nella tua tana, a volume ben temperato, i ragni appesi al soffitto stramazzeranno al suolo, vittime di una prolungata esposizione a chitarroni arroganti e megalomani.
Registrazione tattile. Sangue e sudore sgorgano dalle sei corde e schizzano dritti in faccia all’ascoltatore. Il quadro è completato dall’immagine di vecchi amici rinchiusi in una sala prove sgangherata e dall’impressione che qualcuno abbia sbadatamente premuto il tasto REC di un mangianastri uscito vivo dal secolo scorso.
L’apertura è di quelle fuorvianti. La quiete prima dell’ira funesta. Tamburi lontani e un paio di arpeggi di largo respiro che nell’economia dell’opera finiranno poi sotto la voce Prove Tecniche di Trasmissione. Le bugie han le gambe corte e non può essere altrimenti, soprattutto per chi si è già scontrato almeno una volta col californiano Ty Segall, prolifico ideatore di questo progetto onomatopeico marchiato a fuoco con uno stile ormai consolidato e ben riconoscibile. A differenza delle copiose collaborazioni precedenti, Segall sceglie di manovrare il discorso da dietro la batteria, senza rinunciare al cantato. Alla chitarra spadroneggia Charles Mootheart, già membro della Ty Segall Band e promosso a pieni voti dopo “Slughterhouse” (In The Red Records, 2012).
I motori si surriscaldano già col primo brano “Earthen Gate”, che ben definisce la morfologia del disco: riff e assoli interminabili nel segno dell’Hard Rock più selvaggio, suoni rozzi e violenti del tutto simili a quelli vomitati negli scantinati di Seattle allo scadere degli anni Ottanta, vocalizzi onniscienti e riverberati che rievocano Ozzy e i Sabbath. “What’s in my head” è sicuramente il pezzo più educato, scandito da un ritornello lobotomizzante e arricchito sul finale dalla sovrapposizione di chitarre lisergiche. Con “Hazemaze” si ritorna allo stile libero e al susseguirsi di registri promiscui che sfociano in uno scanzonato cameo Punk-rock. In effetti, progredendo con l’ascolto, il ricorso sporadico a improvvisi cambi di ritmo in favore di battute più frenetiche appare come una via facile ma necessaria per divincolarsi dalla trappola del tedio e alleggerire un’architettura piuttosto complessa che alla lunga rischierebbe, altrimenti, di risultare indigesta.
Alla distanza, inoltre, la spavalderia vocale si sgonfia leggermente, stritolata da una ragnatela sonora che s’infittisce canzone dopo canzone. Dopo qualche banale bisticcio in brani come “Loose Sutures” e “Raise”, il narratore soccombe e viene escluso da “One”, gran finale che, come un Saggio di fine anno, non può che strappare applausi obbligati.
72/100
(Michele Scaccaglia)
9 gennaio 2014