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Si può cantare la propria vita e fare in modo che si incastri quasi esattamente con quelle degli altri?
Secondo voi è più facile innamorarsi e scrivere canzoni d’amore o il contrario e far sì che i dolori si trasformino in pura energia trasparente?
E come si fa a ballare su ritmi coinvolgenti che grondano le lacrime di chi li stava componendo?
E le canzoni diventano più tue se quelle lacrime cominci a versarle anche tu?
Non tante domande, ma le risposte credo possano essere infinite.
Così come sono infinite le sfumature degli approcci alla vita di ognuno di noi. Così come sono infiniti i cazzi, che nel bene o nel male, prima o poi capiteranno nella tua vita.
Ma come si fa a trasformare il dolore in bellezza? Come si fa ad acquisire questo straordinario potere? E’ un talento o è qualcosa che puoi imparare?
C’è chi uccide per davvero e, dopo la legge canonica, vola in qualche posto dove provare a fare cose buone per cercare quelle indulgenze che, se un minimo umano sei, da solo è difficile restituirti. Fosse stato ancora il 1500 quelle indulgenze si potevano comprare, e il gioco era fatto.
C’è chi promette di amare per sempre, e dicendolo sa di mentire, ma quando poi l’amore finisce, qualcuno che muore un po’ c’è sempre. E allora a chi servono le indulgenze? A chi ha proclamato cose che umanamente sono impossibili o a chi ha voluto credere alle favole?
E se cantare fosse curativo? E se cantare certi sentimenti li assurgesse a grandi conquiste caduche del nostro essere umani? Abbiamo conquistato la luna, pare, e non riusciamo mai a raggiungere un minimo di stabile tranquillità sentimentale o umorale che sia.
E scusate, ma non ci credo a chi di voi dice, io quella tranquillità ce l’ho, perché di contro, sarebbe una sconfitta stanziale anche quella.
Vediamo cose e persone sotto luci fantastiche, ma poi, chi cambia la fotografia?
O sono solo i nostri occhi che cambiano?
Soprattutto, è così male se le cose cambiano?
No, perché questa è una domanda banale, ma che terrorizza la gente.
Eppure, quando eravamo bambini, quando eravamo adolescenti con “stupide” regole genitoriali che in modo o nell’altro ci frenavano, non vedevamo l’ora di cambiare. Non vedevamo l’ora di crescere, non vedevamo l’ora di prendere la patente, non vedevamo l’ora di non avere l’ora di rientro a casa, e quante volte l’abbiamo urlato, allora, “prima o poi tutto questo cambierà”?
Assodato. Tutto cambia, tutto si trasforma, nulla si distrugge. Ma questa è la termodinamica, non è la vita dell’uomo. Noi ci possiamo fermare solo ai primi due passaggi.
E sappiamo che non si tratterà di passaggi di sublimazione o che. Il gas quando si liquefà non credo provi gioia o dolore.
Noi sì. Gioia al mondo quando ci sciogliamo, e dolore profondo se diventiamo di ghiaccio.
Cosa ci resta da fare allora? Accettarlo. Accettare tutto questo e trovare l’energia per due cose a cui, secondo me non dovremmo mai rinunciare.
Curiosità e speranza.
Almeno in questo siamo diversi da gas e liquidi.
Anzi no. Non è vero.
Mettiamoci anche la fantasia.
Bene. Io ci leggo tutto questo in “1969”, quarto e nuovo album di The Niro, per la prima volta interamente in italiano.
Sarà che l’italiano predispone un po’ di più all’introiezione nei testi del disco, sarà che la musica, affezionata ormai ai tempi dispari e alle batterie dai tempi propri, come l’essere umani, sembra diventare il respiro di certe storie, alle volte più affannato, altre volte fermo, altre ancora più rarefatto. Allora sarà facilissimo cadere nell’empatia pura con chi ascolta. Con chi sa ascoltare. Con chi vuole ascoltare. Con chi ha bisogno di ascoltare.
83/100
(Elisabetta De Ruvo)
3 marzo 2014