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Sulle qualità di scrittura e comunicative di Mr. E non si discute. E questo nuovo lavoro, così elegantemente consacrato all’intimismo, alla confessione sentimentale e al minimalismo armonico, ha proprio tutte le carte in regola per trasformarsi un classico privato per i tanti cuori infranti ancora nascosti nel mondo dei distratti senza punto di fuga, dei cinici senza nichilismo, dei fanatici senza irrazionalismo e degli esaltati senza spirito d’avanguardia. Sono sicuro, questi brani saranno farmaco e rimedio per tutti gli inguaribili malinconici chiusi nella loro cameretta mentale a ripensare giorno e notte alle cose non dette, agli obiettivi falliti per l’ansia di sbagliare o compromettersi e ai desideri mai realizzati… Perché è questo che vogliono i malinconici: piangersi addosso, accusarsi dolcemente e infinitamente in un processo infinito e senza condanna (o assoluzione). E quale miglior giudice (o difensore) dell’innamorato e deluso Mark Oliver Everett? Uno che chiama le cose col loro nome, ma che sa pure abbellire le futilità con poesia e frizionare le angoscie più laceranti con dolci unguenti di melodia…
Con “Agatha Chang” il cantautore dimostra tutta la sua classe in pochi accordi. C’ha la capacità di creare grandi effetti con due o tre ingredienti: una melodia abbastanza ovvia, in odore di aurea mediocritas tra un Reed stantio e un Cave innamorato, un arpeggio lieve e incisivo e un velo d’arco profondamente centrato. E non è da tutti. Almeno non in questi anni. E non dopo vent’anni di carriera…
Con la ritmica sostenuta e malinconica di “Mistakes of My Youth” la buona impressione dell’avvio trova conferma e giustificazione poetica. Mark Everett sta parlando a un pubblico potenzialmente infinito, da vero eroe del pop sofisticato e ispirato… Si fa portavoce di un proclama individuale universalizzabile da mandare a memoria, come mantra di autolesionismo e ottiomo palliativo: “I can’t keep defeating myself/I can’t keep repeating, the mistakes of my youth”.
Il succo dell’opera gira intorno all’assurdità dell’amore, all’imponderabilità della vita e altri tormenti facilmente accantonabili come irrisolvibili antinomie. Quindi il pensiero si sospende e resta la musica. Un folk rock lento e piano, sempre più piano, fino quasi al piattume. Damon Albarn pagherebbe milioni per un paio di canzoni così. E, infatti, stanno entrambi fuori dal mondo.
75/100
(Giuseppe Franza)
04 maggio 2014