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A chi scrive gli Alt-J piacquero già dal primo singolo, scoperto per caso su Youtube. Piacque anche tutto il resto del loro disco d’esordio, quell’ “An Awesome Wave” che in qualche modo tracciò una linea divisoria nel 2012, così perfetto nell’infilarsi tra tutte le cose ascoltabili e ascoltate quell’anno. Piacquero all’ormai defunto A Perfect Day Festival e piacquero anche al Bronson lo stesso autunno, quando già la loro onda stava alzandosi di parecchio. Quello che convinceva della band di ragazzini inglesi era il loro modo di creare canzoni facendo a pezzetti tutto quello che veniva prima di loro, i generi, i suoni, i testi, tanto da rendere inutile qualsiasi tentativo di etichettamento: quella roba era pop? Era alternative? Era trip-hop? Non lo si capiva, e non importava molto: il disco era riuscito, e parecchio.
Così tanto che già cresceva e di tanto l’attesa per il secondo lavoro. “This Is All Yours” esce ora dopo qualche problemino nella preparazione: le spifferate sulla data di uscita che si rivelano inaffidabili, qualche cover che forse era meglio risparmiarsi, e soprattutto i presunti scazzi interni alla band conclusi con l’uscita del bassista Gwil Sainsbury sembravano farci sentire un po’ puzza di bruciato. E poi ancora le cavolatine promozionali come la nuova app personalizzata per lo streaming, o il self-twitting per anticipare i singoli, performance live di certo non memorabili: insomma, il sentore che qualcosa fosse andato storto c’era eccome.
Forse è anche per questo che le cose migliori in questo nuovo disco sono all’inizio: la tripletta “Intro” + “Arrival In Nara” + “Nara” riesce a rievocare quel suono ipnotico e tribale che tanto aveva convinto due anni fa. Tre pezzi che sembrano essere messi lì apposta dagli Alt-J, quasi per riprendersi gli affetti di chi nel frattempo stava incominciando a dubitare di loro.
Purtroppo per loro, però, le carezze all’inizio del disco servono poco, perché poi arrivano anche le altre canzoni. Fatta eccezione per i singoli usciti fino ad ora, che sono appunto progettati per far capire a tutti che “ehi, sono tornati gli Alt-J”, o per un inedito-non-inedito (“Warm Foothills”), quello che si ascolta nel resto del disco sono perlopiù esperimenti lasciati a metà, e per questo non riusciti del tutto, o ancora peggio robe che sembrano voler imitare loro stessi. L’impressione è che quando gli Alt-J provino a rifare gli Alt-J manchi comunque una certa convinzione, un certo mestiere, forse proprio l’ispirazione: è il caso di “The Gospel Of John Hurt”, “Pusher” o “Bloodflood pt. II”, pezzi tutti e tre un po’ troppo insipidi per il gusto che eravamo abituati ad avere sul palato. E così anche in “Garden Of England” e “Choice Of Kingdom” quello che manca è ancora la forza, l’intensità, la cognizione della propria bravura.
Proprio ciò che rendeva “An Awesome Wave” un disco riuscito. Quel coraggio di cantare allo stesso modo in cui si recitano sermoni, quei testi sconclusionati che parlano di arte, sangue e matematica, quel modo giovane di frullare tutta la musica che ha riempito le nostre orecchie fino ad adesso.
Ora invece quello che suonano gli Alt-J è qualcosa di molto più abbozzato, e se si va a cercarne le ragioni di questo calo evidente qualcosa si può ipotizzare: il primo disco era il frutto di una gestazione ben più lunga rispetto a questo ultimo lavoro, uscito forse con troppa fretta; la sempre vera verità per cui il secondo album è una sfida complicata; l’urgenza di uscire in fretta per rimanere in alto sull’onda dell’hype; e anche l’obiettiva impossibilità di ripetere la potenza dell’esordio.
Proprio da qui chiudiamo il discorso su questo “This Is All Yours”: ripetersi era impossibile. Per molti versi il primo disco segnò lo zeitgeist del 2012, ma ora le cose sono cambiate, il 2012 è passato ormai da un bel po’ e gli Alt-J del 2014 forse hanno avuto troppa fretta di essere di nuovo loro stessi. Si rifaranno, ne siamo certi.
58/100
(Enrico Stradi)
22 settembre 2014