Share This Article
Quando si ha tra le mani o per le orecchie un disco della DFA molto spesso ce ne si accorge subito: si avverte chiaramente la patina dorata della classe di quelli bravi. Non importa se il disco è dei celeberrimi Arcade Fire o di qualche nuova leva che promette grandi cose, la regola che conta prima di tutto è che la musica brilli di luce propria.
Vero è che quello che rendeva la DFA la prima della classe dieci anni fa – e cioè quel lungimirante progetto di restyling della dance, della disco, dell’elettronica – ora è materia di ricerca molto diffusa anche tra le altre etichette. La differenza però tra chi inizia prima e chi ci arriva dopo è il mestiere. E quindi anche se è innegabile il fatto che ad oggi la DFA non sia più l’unica a proporre quel sound dance-funk mischiato di elettronica e fighetterie, è altrettanto innegabile che è stata proprio la DFA ad inventarselo, e quindi meglio delle altre etichette concorrenti lo conosce e lo sa trattare, e raramente fa cilecca.
Un ottimo esempio di “mestiere” è il primo disco dei Museum Of Love, il progetto che Patrick Mahoney ha messo in piedi dopo aver chiuso l’esperienza da drummer negli LCD Soundsystem. Un progetto che sbagliando si potrebbe definire quasi del tutto ad uso personale: il suono dei Museum Of Love prende molto dalla sua ex band– e come non potrebbe? – ma a farcirlo c’è il non trascurabile ricamo di beat e synth a cura di Dannis McNany, dj di vecchia conoscenza della DFA.
Quello che esce dalla collaborazione tra i due è un disco coerente, omogeneo e ottimamente confezionato. E se la matrice rimane la stessa, ovvero quella della dance-funk, è anche vero che il suono si mostra capace di declinarsi ad intensità differenti lungo la durata del disco: da quel groove neoclassicone che è dentro a “The Who’s Who of Who Cares”, ai tastieroni ipnotici di “Fathers”, dalla maestosità pop di “In Infancy” al metronomo di synth in “Monotronic”, dai fumi e raggi laser di “Down South” al soul-pop leggiadro del pezzo di chiusura “And All The Winners”. È proprio in questo sapersi muovere con dimestichezza e sapienza tra orizzonti musicali coerenti che i due ragazzoni dimostrano di vincere. Una sperimentazione sempre puntuale e sempre interessante, misurata mai velleitaria. L’attitudine all’esperimento costante e alla modulazione intelligente vale anche per la voce di Mahoney, che sorprende per elasticità, espressività, interpretazione: a tratti assume toni suadenti, in altri momenti invece si stira secondo la miglior scuola del dream-pop, a volte si gonfia di emozione, altre ancora impreziosisce l’elettronica sotto di lei.
Proprio come dice il titolo insomma, questo disco è una specie di museo, anche se compresso e miniaturizzato: dentro ci troviamo proprio le mille ed infinite varianti del genere di appartenenza, e l’ascolto non è molto diverso di una visita alla mostra sugli animali della savana o sui quadri di Mondrian. C’è tutto ed è tutto allestito e confezionato con la precisione degli esperti.
Resta però una questione aperta, e che comunque non possiamo chiudere ora: questi Museum Of Love fanno sul serio, d’ora in poi produrranno altra roba in cadenze più o meno regolari, o sono solo uno sfizio isolato due musicisti che forse mai avrà un seguito?
Il disco è riuscito bene, sarebbe un peccato che finisse tutto qui.
70/100
Enrico Stradi