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Il rock dovrebbe essere roba da giovincelli, e invece è sempre più, anche grazie alle reunion e ai mostri sacri che suonano fino a 70 anni, appannaggio di un approccio adulto. Quattro kalporziani si interrogano su quando il rock è diventato, anche per loro, una cosa dannatamente seria. Insomma, adulta.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Schlesinger, 1831)
Il momento del pregiudizio chiamato gusto
di Giuseppe Franza
La musica rock è roba vecchia. Personificata è come una donna sinfonosa, tirata e siliconata, vestita da ragazzina per autoindulgente e tragicomica volontà di giovinezza. E sotto una certa luce-non luce potrebbe davvero sembrare giovane, fresca e affascinante come un gelsomino notturno. La sua ambiguità è fascino aggiunto. Forse non ha età. Nonostante ciò, volendo, potremmo interpretarla come sostanza e attribuirle un aspetto, un carattere e quindi un anzianità: fisica, mentale, sentimentale e sociologica. Il fenomeno è, per molti versi, storicamente legato all’età della giovinezza. I primi rock ‘n rollers (parlo di quegli sfregiatori impuniti di blues e country che negli anni ’50, o giù di lì, diedero sistemazione artistica al genere) si rivolgevano all’irruenza adolescenziale, a tutti quei ragazzi stanchi di musica crooner o da camera e di una cultura stantia fatta e pensata da vecchi. La volontà era quella di far ballare e urlare. Nulla di più. Estremizzare (o elettrificare) volume, suono e velocità. Comunicare, senza comunicare, una certa gioia di vivere, o un particolare disagio, risvegliare l’adrenalina, quell’istinto bestiale e incosciente (sensuale) che è la scintilla di ogni passione. Questo carattere “giovanile” – e quindi d’autocoscienza (quel momento hegeliano durante il quale l’io si rivolge a se stesso e si contrappone eroicamente, o stupidamente, al mondo) – ha accompagnato il percorso poetico del genere (con tutti i suoi centrifughi sottogeneri) come un destino. Anni ’50, ’60, ’70, ’80 (?), ’90 e ’00 (?), hanno prodotto generazioni di musicisti e appassionati di rock ‘n roll, poeti della ribellione e dello scazzo, della denuncia e del nichilismo, della superficialità, del vitalismo e dell’autodistruzione, tutti rivolti o conchiusi nello spazio contraddittorio e riottoso della gioventù. Dalle Alpi alle Ande, dal Rockabilly al Black Metal, il tipo rock ‘n roll è stato essenzialmente un outsider, più o meno fanatico, un escluso (o un auto-escuso), un sognatore autoindulgente e irrequieto, con tanta voglia di fare casino. Ma c’è tanta altra musica che fa casino, che fa muovere il culo e urlare… Qual è oggi la differenza, o l’orgoglio, che spinge il fruitore di musica rock a sentirsi diverso rispetto all’ascoltatore di musica pop, dance o electro? La risposta è talvolta nella maturità, ovvero nella riflessione che spinge a riconoscere in suoni di un certo tipo una particolare attitudine che, in quanto tradizione, è differenza, senso e inclinazione. In tutta la storia del rock – e specularmente in ogni storia individuale di ascoltatore o musicista – arriva il momento della maturità, della coscienza del pregiudizio chiamato gusto. È il momento in cui il rock diventa una cosa da “grandi”, il trascendere il mero sballarsi e fare baccano. Ciò non significa che dopo questa nuova consapevolezza sia vietato sballarsi e fare baccano (anche se molti sono ancora convinti che maturare significhi ammosciarsi), anzi… Il rumore, il casino, l’essere estremi e le pazzie possono comunque farsi veicolo di concetti e poetiche sintetiche. Ossia mature.
La conservazione a volte è più rivoluzionaria della stessa rivoluzione
di Giuseppe Franza
Il mio personale rapporto con il Rock maturo è legato a un disco quantomeno ambiguo. Roba che fa storcere il naso ai puristi e sorridere i cosiddetti intellettuali. Parlo di “A Night At The Opera” dei Queen, un disco barocco, paraculo e presuntuoso, studiato in ogni dettaglio per assecondare i canoni del rock mainstream dei primi anni ’70 (hard rock, glam, gusto sinfonico, prog) e sfacciatamente pop, pur evitando sintassi scontate e la politica della semplicità d’ascolto. Proprio l’avversione del pubblico sedicente raffinato, unita all’amore superficiale espresso da un pubblico fanatico e totalmente acritico, privo di qualsiasi buongusto, mi ha spinto ad affezionarmi a questo disco in maniera speciale. È il mio disco. È pura e infinita contraddittorietà. Riesco a innamorarmene e disinnamorarmene continuamente, ma ogni volta sono costretto a ritornarci per mettermi alla prova. Pezzi come “Bohemian Rhapsody” mi hanno insegnato che la melodia è tutto. Che il senso è lì, non nelle parole, né nell’attitudine, ma solo ed esclusivamente nella melodia. Tutta la dialettica che rinuncia, distrugge o reinventa il concetto di melodia non fa altro che confermare questa convinzione di base. In più ho imparato che non importa cosa si sta suonando, quale strumento, con quale mentalità e con quale risultato (se pretestuoso o ridicolo), ma importa l’effetto, inteso come risonanza dei suoni in un motivo unitario o frammentario che esprima un senso tautologico, che non ha bisogno d’altro. Da questo disco ho capito che la conservazione a volte è più rivoluzionaria della stessa rivoluzione, in quanto non sempre cambiare e distruggere è sinonimo di produttività e di costruzione. Solo dopo aver ascoltato questo disco cosciente di tutti i pregiudizi personali e ambientali (cioè storici e culturali) e averne goduto in maniera intellettuale e sentimentale ho capito cosa voglio dalla musica. Certo non voglio “A Night At The Opera”, ormai mi ha rotto le palle, ma il punto non è questo.
Le cose non vanno poi così bene come dice mammà
di Simone Dotto
Chi scrive non si darà mai pace del fatto che la definizione di AOR (Adult Oriented Rock) venga affibbiata d’ufficio a gruppacci in stile “tamarro di ritorno”, ovvero quelli con chioma fulva dietro e stempiata davanti, jeans attillati rigorosamente a cavalcioni su motocicletta e assoli a tutto spiano. Che l’età adulta venga confusa con questi che sono chiaramente sintomi da sindrome di mezz’età la dice lunga su quanto sia il concetto di “adulto” a mettere in crisi l’idea stessa di rock. Pochi equilibristi sono riusciti a tenersi dentro a spostare in là l’asticella, e sono quelli che conosciamo: Dylan dalla trilogia elettrica, il Lou Reed ritratto in Berlin, Bowie che dai pompini marziani approdava ai capolavori teutonici…i soliti parrucconi, se credete, ma si badi che nel rock passare da giovani virgulti a vecchi babbioni è un attimo. Fanno fede i tamarri di cui sopra e tutte queste truppe di “non-morti” che nella reunion era si aggirano a decine per i palcoscenici: e più son vecchi, più fanno i giovani! Perché anche loro sotto-sotto lo sanno che il rock è per statuto una bestia che si nutre di sangue giovane. Una macchina che tira avanti a forza di calcioni e continui reset: che lo facciano il gruppo del quartiere o gli Iron Maiden poco importa, ma ogni nuova infornata di quattordicenni avrà bisogno di qualcuno che gli urli nell’orecchio che, no, le cose non vanno poi così bene come dice mammà.
Il sogno innocente in decomposizione
di Francesco Giordani
Il rock diventa adulto per il sottoscritto nel 1999, alla veneranda età di quattordici anni. Proprio in quell’anno fatidico e semiconclusivo, anche sotto il profilo cabalistico-numerologico, uscì il sesto album dei Blur, la band per cui, in quel periodo (e non solo in quello), avremmo dato tutto, anche il cuore caldo e palpitante della fidanzata che non possedevamo. Anno strano, ad ogni modo, il 1999: l’utopia brit-pop (e, con essa, il nostro sogno innocente) aveva già iniziato a vacillare a causa dei nostri londinesi preferiti (che nel 1997 avevano preso a pugnalate l’odiato poster di sé stessi con il controverso omonimo/senza titolo) e dei Radiohead, i quali, con “Ok Computer” (sempre 1997), avevano gettato il seme di un parricidio solenne di cui erano all’epoca ignari. Se “Blur” (anche nella copertina) era un quasi-cadavere del brit pop ospedalizzato in barella d’urgenza, “13” è quella stessa salma gettata in pasto alle formiche della decomposizione: decostruzione krauta, parentesi rumoriste, libere improvvisazioni jazz-psichedeliche incollate secondo la regola postmoderna del cut-up cerebrale e il sublime inganno di tre singoli pop che poi, a saperli guardare bene, tanto pop non sono (la cantilena gospel ipnotica di “Tender”, il Coxon che già mette annunci su un sé stesso scappato di casa di “Coffe& Tv”, l’addio disilluso all’amore puro e assoluto, ovvero Justin Frishman, di “No Distance Left To Run”). 13 è la cifra inglese della sfortuna per antonomasia, tanto che molti alberghi evitano di usarla nella numerazione delle camere, ma è anche il titolo dell’album che ci traghettò oltre il rock, laddove “Kid A” ci stava già aspettando, all’alba del nuovo millennio. Tutto era finito, ma soltanto per ricominciare di nuovo dall’inizio, come poi gli Strokes ci avrebbero raccontato. Ma quella cicatrice, quel tatuaggio mentale da galeotti fatto di due cifre, non lo avremo più dimenticato davvero.
Annientamento in diretta
di Paolo Bardelli
Paradossalmente, forse è proprio il rock che mi ha cresciuto, che mi ha creato definitivamente adulto. Lo ha fatto dapprima con un paio di dischi, e poi facendomi capire che il rock, quella cultura a cui mi abbeveravo come un forsennato, era talmente distruttiva da far scomparire davvero. Quelli della mia generazione si sono approcciati le prime volte alla musica “diabolica” con i vari Jim Morrison e Jimi Hendrix che erano già morti, ed erano esattamente come Giulio Cesare: che qualcuno abbia lasciato questa valle terrena venti o duemila anni prima, che differenza fa? E’ storia, è qualcosa di lontano da te, e ciò anche se si tratta di rock e questo dovrebbe interpellarti di più. E’ molto diverso invece quando chi urla in contemporanea con te la tua rabbia giovanile viene annientato dalla stessa. Quello che successe per Kurt Cobain: vivere in diretta dapprima il suo urlo spasmodico, identificarlo come uguale al tuo, eleggerlo a messaggero mondiale della propria irrequietezza, e poi sentire che si era ficcato un bel po’ di pallettoni nel cervello, beh, può farti capire che, effettivamente, il rock è una roba serissima. E’ la scoperta della morte come crescita, come quando muore la tua prima nonna e tu sei ancora piccino.
Dapprima ci avevano pensato “The Wall”, con il pensiero ossessivo della solitudine, e “Disintegration”, con il diverso, seppur collegato, mantra fisso del decadimento, dell’invecchiamento, della caducità nostra e dei sentimenti, a farmi fare qualche passo verso l’età adulta. Ma quel fucile di Kurt fece davvero, e definitivamente, il resto.
1 Comment
michael stipe
Queen e Hegel???? Ma che senso ha?