Share This Article
I Neverdream, cugini di Guidonia dei Dream Theater, dei quali tra l’altro portano per metà il nome, confezionano “Said” il loro terzo concept album, dedicato all’Africa, non aggiungendo nulla al filone progressive metal, rispettandone tutte le prerogative maestose, ma partorendo di fatto un topolino.
Con siffatte premesse infatti ci si aspetterebbe qualcosa di davvero imponente, nella speranza che l’impulso alla grandiosità non trovi sfogo solo nel minutaggio da via crucis dei brani; e invece ti senti come quando sei invitato ad una festa dove ti hanno assicurato che ci si vestirà con stile casual e invece trovi tutti, ospiti inclusi, abbigliati da gran galà: ti aspettavi un contenuto che provocasse assalti concreti, sporchi e spietati, energie rivitalizzanti per una struttura progressive metal appiattita su metri valutativi patinati; e finisci per trovare solo perplessità senza troppe complicazioni.
Un album insomma che crea disagio per l’ingombro della proposta, perché ne fallisce l’aspettativa: in questo concept sull’Africa manca proprio l’Africa. Non ci sono i suoni (tranne in alcuni inserti in “Black Mirror” e “Voodoo”), i colori del continente, la sua vastità, la sua ricchezza, il suo mistero, la sua diversità, l’essenza suggerita della sua poliedricità. Non esiste la rappresentazione dell’Altro, persino nella raffigurazione letteraria, sociale e politica del potere deturpatore, perché non esiste l’Altro, non esiste l’Africa in sé come realtà concreta. L’Africa di “Said” è un modello ripetuto, tradizionale e compiaciuto, interno al nostro punto di vista, ossia quello messo a fuoco dalla lente dell’occidentale in penitenza, torturato dalla sua coscienza infelice, indignato e incazzato per il vulnus sacrilego che il nostro mondo colonizzatore ha provocato.
E purtroppo la debolezza del contenuto infiacchisce con effetto domino la forma. Accantonato il virtuosismo che fa capolino giusto il tempo di ricordare che si fa pur sempre progressive metal (solo “The Long Walk To Freedom”, fuori tempo massimo, riattizza per un quarto d’ora il genio italico da prog d’annata, che si spegne ahimé ingloriosamente) il groove metal mostra i denti soprattutto negli intro collerici, promettendo crolli da montagna, sfracelli ideologici, vendette sonore che nemmeno Attila… ma sprofonda in contraffatte atmosfere di disimpegno musicale; si assiste al massacro delle idee, per lo più ad un’ordinaria dilatazione della forma canzone, complicata solo in numerati e prevedibili passaggi dalla strofa al refrain, o dal refrain al bridge, in fughe misurate, senza mai sviluppare le frasi melodiche, e riprendendo inalterati riff ed ostinati, alternando ora il sax ora la chitarra.
Ogni brano è un quadro giustapposto con soluzione di continuità tra una traccia all’altra, senza che un tema venga ripreso, o che richiami interni chiudano in un cerchio di perfezione interna il significato dell’opera tutta.
Tutto peggiorato dall’insensato sussurrato che appiattisce e addormenta ogni emozione (solo in “Amistad” la voce finalmente si alza restituendo la poesia rapsodica degna del tema) e dal songwriting genericamente rudimentale.
Un lavoro modesto e borghese, stritolato nella catena di montaggio di un genere che soffoca personalità e innovazione, uno di quei lavori che non si vorrebbe mai recensire, per il troppo dispiacere, per lo scontento, per i gridolini del topolino.
(Stefania Italiano)
19 gennaio 2011