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Non era facile, dopo un disco come “Silence Yourself” continuare sulla propria linea senza perdersi per strada. La formula delle Savages ci aveva subito entusiasmato. Siamo stati tra i primi a intravedere in loro delle grandi potenzialità, a partire dai primi singoli come “Husbands” che ne avevano anticipato il debutto di ormai tre anni fa. Sembra ieri, ma con un fulminante post-punk d’annata e quegli echi dark da Siouxsie, “Silence Yourself” si era rivelato un terapeutico pugno nello stomaco quando in molti credevano ormai legittimamente esaurita l’onda lunga del revival post-punk degli anni Duemila. Dalla loro le Savages hanno avuto la fortuna di crescere sui palchi e presentarsi con un’estetica che molti potrebbero definire già vista e stravista ma di sicuro impatto e fascino. Senza il magnetismo e la voce dalla strana cadenza della frontwoman Camille Berthomier, ormai nota a tutti come Jehnny Beth, forse non esisterebbero le Savages, ma ciò che conta è lo spirito. Senza alcun intento rivoluzionario, il quartetto londinese guarda al passato, ma continua a farlo nel modo giusto.
A colpire non sono più quelle atmosfere inquiete e le esplosioni isteriche, ma la compattezza del sound soprattutto nelle trame delle chitarre e nelle deflagrazioni noise. A partire dalla titletrack e dalla traccia d’apertura “The Answer”, le sonorità sembravano virare verso le desolanti atmosfere di Nick Cave dei tempi in The Birthday Party. Aleggiano linee vocali che riportano alla mente i classici più decadenti di Patti Smith e soprattutto di PJ Harvey (“Slowing Down The World”).
Fatta eccezione per “Evil” che sembra ancora figlia del revival di “Silence Yourself”, le Savages hanno cambiato registro.
Il sound ricorda i momenti più noise dei Wire e inevitabilmente gli Swans (“Sad Person”, “T.I.W.I.G.”).
Ritmiche malsane e dissonanti dimostrano la loro capacità nel destreggiarsi bene anche senza i classici tempi in levare post-punk d’esordio. Persino in “Surrender” che ha un motivo di facile presa, ma ha una struttura molto complessa e imprevedibile.
“Adore Life” è un album di canzoni d’amore violente, inquiete e tempestose, sporcate da muri di suono asfissianti che sconfinano con piacere nel noise d’annata come in “I Need Something New” fino alla tetra nenia di chiusura di “Mechanics”, dark ballad, che mette in mostra l’animo cantautorale delle quattro.
Senza alcuna pretesa di guardare al futuro e all’innovazione, Jehnny Beth, Gemma Thompson
Asse Hassan e Fay Milton, hanno realizzato un altro album coerente, convincente e coraggioso nella ricerca di nuovi stimoli. Sempre con lo sguardo rivolto al passato, ma con gusto.
81/100
(Piero Merola)