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Per delle logiche assurde, Kanye West vorrebbe che tutti parlassero d’altro invece di soffermarsi sugli aspetti musicali delle sue uscite. La stessa logica per cui uno degli artisti mainstream del nuovo secolo più trasversalmente apprezzati da critica e pubblico faccia di tutto per essere detestato da tutti. Come sempre i suoi comportamenti e le sue provocazioni hanno spostato, ancora una volta, troppo l’attenzione sui risvolti extra-musicali del nuovo album: l’estenuante campagna twitter che ha accompagnato le settimane precedenti all’uscita di “The Life Of Pablo”, con i continui cambi di titolo (“So Help Me God”, “Waves”, “Swish”), il leggendario scontro con Wiz Khalifa, gli eccessi dell’evento fashion di presentazione dell’album a New York, la diatriba con Taylor Swift (in “Famous”, Kanye rivendica: I Made That Bitch Famous) e per finire la richiesta di soldi a Mark Zuckerberg dopo l’ammissione via Twitter di aver accumulato un debito di 53 milioni di dollari. E, poi ancora, i proclami sul nuovo album come “miglior disco di tutti i tempi”, poi smentiti, la diatriba Adidas vs Nike, lo streaming esclusivo sulla piattaforma Tidal, il videogame kitsch della madre defunta che va in paradiso, e infine la copertina volutamente di rottura (curata dall’artista belga Peter De Potter) che è stata criticata dall’ascoltatore medio per la bruttezza e dagli addetti ai lavori perché figlia di soluzioni grafiche ormai abusate da almeno tre o quattro anni nel circuito degli eventi underground più d’avanguardia.
Come vedete, ci stiamo cadendo anche noi. Proviamo per un attimo a parlare di musica. Il disco arriva a tre anni da “Yeezus”, che nonostante le sue asperità e qualche furbata nella scelta di determinate sonorità elettroniche aveva ancora una volta messo in luce il genio di Kanye nel ricombinare le ispirazioni più disparate. In “The Life Of Pablo”, che non è Escobar né Picasso come sperava qualcuno, ma più banalmente uno dei padri della cristianità come Paolo di Tarso, Kanye rispolvera la spiritualità di “The College Dropout” (si pensi a brani come “Two Words” o “Never Let Me Down”) nell’epica apertura di “Ultralight Beam” in cui è accompagnato all’altare da The-Dream e Chance the Rapper. E poi nel sermone di Kirk Franklin che la lega a “Father Stretch My Hands Pt. 1”, un tripudio di autotune con Kid Cudi e Future a spadroneggiare in uno dei momenti più solari e positivi del disco, insieme all’affine “Highlights”. Il tormentato Kanye nella sua carriera vede spesso la luce e non è solo una questione di titoli. Si pensi a “Flashing Lights” (classico di “Graduation”), “Street Lights” (da “808’s & Heartbreak”), poi “All Of The Lights” (“My Beautiful Dark Twisted Fantasy”) e infine, appunto, ad “Highlights” dove sbuca fuori uno dei giovani astri del sound di Atlanta, Young Thug. Se odiate l’abuso del caro, vecchio autotune, lasciate stare.
Chi preferisce il Kanye più ruvido e trap degli ultimi tempi ha subito la “pt.2” e “Feedback” a smentire una svolta retrò. L’affezionato co-producer Mike Dean insieme ai fedelissimi Southside, Metro Bromin e Hudson Mohawke sono gli architetti di sonorità coerenti che strizzano l’occhio alle tendenze underground più in voga dei dancefloor statunitensi. A loro si aggiungono guest come DJ Dodger Stadium che accompagnano l’altro suggestivo momento gospel, “Lowlights”. Il resto lo fanno i soliti impareggiabili sample pescati da chissà dove come quello di “Talaght” di Googoosh, storica artista iraniana, molto popolare prima della rivoluzione islamica, ripescata nella base di “Feedback”.
O addirittura quello dell’inddimenticata prog band italiana Il Rovescio della Medaglia che compare con il brano scritto con Bacalov “Mi sono svegliato e… Ho chiuso gli occhi”, in “Famous”, potentissima traccia in cui Rihanna riprende la meravigliosa “Do What You Gotta Do” di Nina Simone e Kanye sbraita contro Taylor Swift e il protagonismo degli artisti contemporanei.
Più bipolare che mai, dà sfogo alla sua ingestibile vocazione egomaniacale nella sinistra “Freestyle 4” accompagnata dal campione di “Human” dei Goldfrapp. E poi sfodera autoironia e leggerezza nel freestyle di “I Love Kanye” dove gioca sul noto meme che sul web ha impietosamente deriso la sua nota tendenza a parlare in terza persona. Non è un caso che Desiigner, che compare col suo vocione proprio in “Freestyle 4”, abbia denunciato pubblicamente i problemi di salute mentale di Kanye che, secondo il 18enne rapper di Brooklyn, avrebbe bisogno di un serio consulto medico. Il meglio però deve ancora arrivare. C’è “Waves”, dove ospita un’altra star, Chris Brown e ancora una volta Chance the Rapper che nei panni di producer ha collaborato in diversi brani di questo disco, con ottimi risultati (lasciando perdere la finta querelle sui ritardi di pubblicazione per i quali Kanye ha incolpato sempre su Twitter la nuova stella dell’hip hop di Chicago). “Waves” suona come un classicone pre-Yeezus e testimonia l’insaziabile ricerca musicale di Kanye che va a ripescare uno dei classici underground dei primi anni Ottanta dei pionieri del rap di Brooklyn, i Fantastic Freaks. Restando in quegli anni, in uno dei brani più intensi e riusciti della raccolta, “FML”, oltre alla voce inconfondibile di The Weeknd, sbuca fuori un sample da brivido da “Hit”, brano del 1981 dei Section 25, band post-punk/elettronica inglese della Factory Records. Il tocco gothic dell’arrangiamento di “Hit” risucchia l’incedere drammatico del brano in un vortice oscuro e sinistro.
Gli spunti sono innumerevoli e a tratti incoerenti, ma è difficile contestarne la resa. Tra “FML” e la più affine “Wolves”, dove compare un altro big come Frank Ocean e il soprano Caroline Shaw al posto di Sia e Vic Mensa precedentemente assoldati (anche qui un sample da filologia della musica con “Walking Dub” di Sugar Sinnott), sbuca “Real Friends”, anch’essa già nota e pubblicata. Un tributo ai mitici Whodini (sempre dalla New York hip hop dei primi anni Ottanta, ma dalle parti di Brooklyn), da cui campiona “Friends” del 1984, per uno dei brani più in linea con il new hip hop dove non a caso compare il rapper di Los Angeles Ty Dolla Sign. I big si susseguono e non può mancare Kendrick Lamar, il rapper che con la sua abilità di raggiungere un pubblico traversale come Kanye West, per molti ha già rubato lo scettro al collega. A Kanye West sembra non importare e offre al rapper di Compton la collaborazione in un altro dei brani più convincenti di “The Life Of Pablo”. La base la fa un fuoriclasse come Madlib, il flow dei due si incastra alla perfezione ed è incontenibile nel brano più da strada della collezione.
Non mancano ovviamente altre raffinatezze come l’impagabile sample dal brano motown “Give Me My Love” di Johnny Guitar Watson, lo zio di Drake (grande assente del disco, ma a quanto pare i due pubblicheranno presto un disco insieme, con l’immancabile Future). “The Life Of Pablo” è un disco denso di collegamento e riferimenti e pieno di parentesi. C’è “Silver Surf Intermissions”, una registrazione telefonica in cui i rapper Max B e French Montana discutono della scelta del titolo “Waves”, poi abbandonata in corsa da Kanye. Big dopo big, a rappresentare gli Outkast arriva il redivivo André 3000, in un altro dei brani southern più efficaci, “30 Hours”, impreziosita dall’assurdo ripescaggio di “Answers Me” del leggendario compositore Arthur Russell. L’opera magna di Kanye West si chiude con un altro momento “Yeezus”, l’isterica “Facts”, aperta dal polveroso brano reggae/motown dei Father’s Children e con il momento Chicago house di “Fade”, dove i profeti del genere Larry Heard e Robert Owens incontrano ancora una volta il motown d’annata della blues band dei Rare Earth.
Quello di Kanye West resta un universo contraddittorio e imprevedibile. Tra megalomania e una fragilità sempre più evidente. Tra spettri del passato e velleità futuristiche. Tra la ricerca di una dimensione spirituale e l’ossessione per la moda e il brand. Tra un ego incontenibile e la voglia di dare comunque voce ai nomi hip hop più apprezzati del momento senza alcun timore di esserne offuscato.
I giudizi sulla persona lasciano il tempo che trovano, “The Life Of Pablo” conferma ancora una volta lo spessore artistico del personaggio pop più geniale e controverso dell’ultimo decennio.
87/100
(Piero Merola)