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Il progetto canoro Russo Amorale è costituito da Ugo Russo, in beata solitudine. Francese nato francese, 25enne di Nancy dalle insospettabili origini italiane, con un background di studi di alto livello e infime frequentazioni angiportuali. Autodefinitosi ‘rital’, spicchio di argot franciforme che potremmo tradurre come ‘maccaroni’ con annesso dileggio, il nostro vanta un pedigree letterario di tutto rispetto: una interessante tesi di laurea sulla esotica traduzione di ‘ask the dust’ di John Fante da parte di Elio Vittorini sotto il monocolo censorio fascista e lo stigma della voltura in francese del documentario ‘Fedele alla Linea’ su Giovanni Lindo Feretti alias GLF.
Tutto è spiegabile, il ragazzo è infatti laureato in lettere, è stato cresciuto a pane, cipolla e CCCP dal babbo con un’ampia infarinatura di Guccini e annesso cantautorame e, durante il soggiorno di studio presso l’alma mater studiorum di Bologna, ha contratto il vizio assurdo dell’emilianità e la conoscenza del bettolame di Via del Pratello.
Basta distillare questi ingredienti per produrre una chimera musicale elegante ma dall’impatto immediato, non libresco: un tizio non abbastanza francese per camuffarsi in Dordogne, e un italiano immediatamente sgamato franco nel Belpaese (con rispetto parlando), per il vizioso rotacismo esibito quando parla ma non quando canta, un ometto che ama passeggiare sui pezzi di vetro di un confine conteso. Dalla Francia migliore ha preso l’afflato europeo e la cultura letteraria undiforme, dall’Italia la passione del rock nostrano e di una lingua che declina perfettamente in forme originali, metricamente azzeccate nella loro complessità, con un abile autoironia sottotraccia.
Questo debut album (un EP) è un omaggio a questo background culturale e alla città di Bologna, meta di una sorta di pellegrinaggio alla Canterbury Tales verso un luogo, l’Emilia, che forse esiste solo nella sua fantasia, tra la Bassa e Parigi (dove vive, pagando un affitto impossibile).
Procedo a una interpretazione rigorosamente inautentica.
“L’Emergenza di Emergere”, il primo pezzo, presenta con acume una sorta di Compagnia dei Miracoli emiliana: un’Arenata (ape) Regina, lo scatarrante Michele, Valerio che mesce grappe fruttate e il dimesso Luca che gira con una camicia lurida (‘infanga camicie’), in una peregrinazione notturna gelata dalla brina ultra- siberiana che è anche un paesaggio interiore.
Arenata Regina
In un’ultra-Siberia
Nell’oltraggio di brina
Canto la mia miseria
Infinita vacanza
C’è Michele: scatarra
E nel giro di danza
Perdemmo una caparra
Poi a Reggio Emilia
Mi leccasti la fronte
Con un olio di milza
Sorto da indiana fonte
C’è chi compra un palazzo
Rosso-arancio scrostato
Ripigliati ragazzo
Ristruttura lo stato
L’Emergenza di Emergere
Appannato Valerio
Mi rovina di pacche
E tra il faceto e il serio
Mi avvelena di bacche
Luca infanga camice
E c’è una California
Nel suo riso felice
Rinato da una sbornia
Andiamo a desinare
Accolti dall’inverno
Aspettare nei bar
Gli svaghi dell’interno
Ognuno fa salotto
A chilometro zero
Passami il manicotto
Mi voglio dare al clero
L’Emergenza di Emergere
Disintegrati adesso
I riti quotidiani
Quando pulivo il cesso
Sott’altri meridiani
Occhio che si accascia
Una nuova giornata
Mi adagio nell’erbaccia
Eccola già passata
Arenata Regina
In un’ultra-Siberia
Nell’oltraggio di brina
Canto la mia miseria
Segue a ruota “Fossato 41” che, purtroppo, è un omaggio o una parodia di Guccini, storia liofilizzata di uno studente che vive a Bologna tra ‘spaiati tomi’ di considerevole dimensione, tra ‘glossatori fashionisti’ (che si parli della magna glossa di un Accursio poseur?) tra teorie di ‘Andrea’ indistinguibili l’uno dall’altro (ma uno di loro suona male), con allegata toponomastica delle vie di Bologna frequentate e citate nel testo: Via del Fossato, Vicolo Fregatette, Vicolo Stradellaccio, vicolo della Neve, via Senzanome; più in là Via Frassinago (“frassino”), Via Nosadella (“noceto”), tutti a ruota di una ‘ Madonna imbacuccata che si striscia gradassa ‘.
Sei glossatore fashionista indipendente amaro?
Vieni a Bologna che introduco a te, ora ti spaccio
Per quell’Andrea o l’altro Andrea, mastro somaro
Che canta e suona male… Comunque, era un postaccio…
Tattica frivolezza, fregatette: in due non si passa
Lo stradellaccio poco incline a chiacchiera vana
E senza nome morì accoltellata puttana
Mentre Madonna imbacuccata si striscia gradassa
Ti pulisci la pelle ma chi bada al tuo cervello?
In osteria bolgia della circonvoluzione
Ti han visto schiumante e imbizzarrito al Meloncello
Animo! Dalla bettola alla pubblica ablazione
Profumo umido di chiesa, burrone di edera
Spazzolati i cavalli di sudori unti
Silenzio del noceto, della neve i mille punti
A cancellare il sozzo nome verrà, pittor, verrà
Sotto un frassino per lunghi giorni scioperati
Ad ascoltare il rintocco grasso delle rane
Dimmi come vanno le cose, le angosce emiliane
Sei la mia torre sgretolata, i miei futuri afflati
Spazio diviso in due, bazar di date e feste
Ospiti ignoti, grembiuli, barmaid oneste
Dall’Infedele rubammo l’anima di un cognato
Giace, l’anima dico, giace in un fossato
Ricorderò le facce, dimenticherò i nomi
Piazza mercato, colonna, spaiati tomi
Tale Andrea, l’altro Andrea, scelse vita ascetica
Rifugio! Mi darò all’ippica, ti darò all’epica
Solo per amore, per amore…
“Torrione 10” ha l’aria di essere il resoconto crittografato di una noiosa serata tra ‘eclettici sul ballatoio’ dove ‘vagonate di artisti si lamentano’ compreso l’autore; una sorta di ‘ terrazza’ di scoliana memoria dove si incontrano frustrazioni, vocazioni e tizi che ti citano autori che non hai letto, esalando inquietanti ‘aliti di Pece’.”Simpatie inventate” canta il nostro, e basterebbe questo per definire il panorama umano in una serata di bonaccia, risvegliata solo dalla fantasmagoria di una sirena (‘Croce Rossa: finalmente un’emergenza!’).
E in fondo, una donna, forse ‘la madonna imbacuccata’ che si aggira come una larva, trasudando dalla canzone di sopra, a chiudere le imposte e spegnere la luce sulla serata: ‘Quand’eri all’estero da me nel torrione: Una vita con le labbra screpolate/ Nel sogno conoscevi questa canzone/ Ed eri anche più intonata’.
Conosco la vastità del tuo maniero:
Raduno di ecclettici sul ballatoio
Conosco la vacuità del tuo pensiero:
Ci nuoto, ci affogo, mi annoio
Principianti in calvizie si alimentano,
Ripensando al salario appena già speso
Vagonate di artisti si lamentano;
Ci sono dentro anch’io: che peso
Nell’abisso della mente a ruota libera,
La tua mano gloriosa porge un panino
Al perdente; sembravi una vipera,
Anche se “eri proprio carino”
“Paris non è più capitale in provincia”,
Così dice a me Alito di Pece
Ti dà un indirizzo e poi ricomincia
A fumar col suo ghigno di pesce
In un vano però cerca la prodezza
Un somaro puro spirito paffuto
Cita autori che non lessi, mi disprezza;
E poi beve da un imbuto
Facci un gol Nicolas, vecchia testa fusa
Spettatore delle tue difficoltà
Mi sudi addosso, scatti e fai le fusa:
Le simpatie inventate
Una tennista mi massaggia le mani
Mentre sorseggio un decotto d’erica
Dice “non si sta male senza un domani”
A breve sparirà in America
(Croce Rossa: finalmente un’emergenza!)
(Il mio abbiocco tra i due fiumi…)
Quand’eri all’estero da me nel torrione:
Una vita con le labbra screpolate
Nel sogno conoscevi questa canzone
Ed eri anche più intonata.
In “Le Cose” (che ti fanno prendere male), è evidente che Russo Amorale voglia rendere omaggio alle migliori liriche di Cristiano Godano, quando scriveva !Cenere su Cenere! (“Ciao Divina, io sono il mozzo e puzzo come la mia sbobba.Ho l’occhio lesto (solo questo!)perde bave e non si arresta”), autore cui il nostro “Rital” è molto affezionato. È una sorta di amor fou imbambolato, in cui la musicalità dei versi è sinuosa come un corpo che seduca solo muovendosi, e le parole della seduzione sono l’alfa e l’omega di una storia d’amore che, nascendo, ingloba come in una goccia d’ambra anche la sua inevitabile fine: “E mentre su di noi piombano risse e botti/ si addormentano damigelle sul declino del nostro infinito/ Il declino del nostro infinito il tramonto delle nostre albe/ il languore dell’eternità”
Le cose che ti fanno prendere male, le so
vedi la mia cella imbottita: è per te, ti va?
Nelle mie vene ho un potere partigiano, diva
Che non riesce mai ad accontentarsi, è lasso, è lesso (ormai)
E quella fiasca di sudore che traballa
e sobbalza sul tuo riso attorno al collo
fa rimbombar le grida del tifo senza controllo
per i tacchi; nel corridoio il tuo sedere bello balla
Se non è ostinata guerra allora ci assomiglia
abbastanza da farti sentire il delirio
di un vento favorevole e pronto al martirio
per farmi percorrere due mila miglia
Ma in qualche infarinatura di ingenuità
ti aggrovigli torva serpe che non sei altro
ed io verrò con certa sciabola di amenità
a sciogliere i veleni e le conclusioni errate: sarò il tuo disastro
Ed è banchetto, si imbottiscono mille convinti
della tua salvezza; vedi come sono ridotti?
E mentre su di noi piombano risse e botti
si addormentano damigelle sul declino del nostro infinito
Il declino del nostro infinito
il tramonto delle nostre albe
il languore dell’eternità
In ultimo, “Galileo”, benché in inglese, non sfugge al leit motif dei pezzi precedenti e con un registro alto-basso ci presenta un abiurante supplice, non al cospetto di un inquisitorio Ballarmino, ma di una affascinante fanciulla dall’elegante ‘collo spagnolo’. In quest’ultimo pezzo il gioco dell’ironia è particolarmente raffinato e divertente, troviamo l’allegoria di una storia d’amore che assomiglia a un naufragio su un’isola del tesoro stevensoniana e si conclude con un servile quanto buffo inginocchiamento in un ‘lime bar’, non prima di avere pisciato il cane dell’amata.
I have met your friends at night
And I have walked your dog
There, the Lime Bar in the fog
The stars were out of sight
Let me cure your Spanish neck
The wrinkles on your palms
Now you want me to stay calm
But that’s another card in your deck
Lie down here my little shipwreck
I know where it aches
I have roamed the seas and lakes
And the Captain was a prick
27 years: alone
27 years: abroad
Now all aboard
27 sailors drinking on your bones
I’m Galileo Galilei on his knees
In the Lime Bar, on my knees
I walked your dog and I drank the fog
Can’t you see, can’t you see?
In the Lime Bar, on my knees…
In definitiva “Russo Amorale” è un debut album che oggettivamente si colloca a un livello di qualità non comune per doti vocali e letterarie : è come sentire Guccini cantare (ed è già una notizia) con la voce di Mark Lanegan arguti stornelli medioevali su di una confraternità dell’uva che vive un presente immoto e fatato, quei momenti senza tempo in cui hai l’impressione di non dover invecchiare mai e capisci che, in fondo, ‘non si sta male senza un domani’.
Chapeau.
77/100
(Matteo Marconi)