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C’è qualcosa di diverso, nel modo di presentarsi di Niccolò Contessa, in arte I Cani. È cambiato molto dal 2011, quando aveva presentato, creando un’aura di mistero intorno a sé e al suo progetto, “Il sorprendente album d’esordio de I Cani”. Il suo Aurora, terzo disco sotto lo pseudonimo canino, si allontana dall’autoreferenzialità dei lavori precedenti, racconto antropologico di una Roma in cui era riuscito a far riconoscere anche chi quella città non l’aveva mai vissuta, nel bene e nel male.
A questo proposito, il primo brano, “Questo nostro grande amore”, fa da ponte tra il vecchio e il nuovo Contessa. C’è sempre quell’ironia, mista al parlare del quotidiano, dei “mi piace”su Facebook. Ma già si legge che l’argomento principale non è più quello, ma un’idea di amore, di vita più generale. All’acidità di vecchie canzoni come “Hipsteria”, viene sostituita la solitudine universale de “Il posto più freddo”. Un po’ come quando il bullo della scuola, tipico dei film americano, si confessa, chiedendo solo un po’ di attenzione.
Sono modi diversi di raccontare la stessa cosa: il mondo che ci circonda, le insicurezze e i desideri di un’umanità confusa tra accelerazione tecnologica e paura dei sentimenti. Solo che, questa volta, il racconto generazionale di Contessa riesce a toccare delle corde che non era riuscito a prendere prima, è lui che questa volta sta al centro della sala, a confessare.
Aurora è anche la prova del miglioramento musicale di Contessa: molto più curate le basi, che abbandonano il lo-fi delle precedenti uscite, ma soprattutto il cantato, non più fastidioso ma invece voce che riesce a dare emozioni e ad adattarsi al testo.
Testo che risulta autobiografico ma, al tempo stesso, universale. È tutto quello che si può chiedere ad un “cantautore” oggi: che ci racconti la sua storia mentre nello stesso momento racconti anche la nostra e di tutti quelli che abbiamo intorno.
70/100
(Matteo Bordone)