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Com’è avvenuto già per il tema della “strada“, Fotografia Europea (dal 6 maggio al 10 luglio 2016 a Reggio Emilia) ci ha chiesto di cimentarci con una nostra visione dei “confini”. Il leit motiv della decima edizione di Fotografia Europea sarà infatti “La via Emilia: strade, viaggi, confini”. Tema vastissimo, c’era il concreto pericolo di perdersi. E forse l’abbiamo fatto lo stesso, perlomeno abbiamo individuato un filo conduttore più mirato. Niente Emilia, ci è parso più aderente al momento storico concentrarci sui confini “tra Oriente ed Occidente”, che abbiamo puntualizzato con 7 canzoni importanti in questo senso.
E se ci siamo persi, beh, stiamo parlando pur sempre di strade e viaggi, o no?
Shye Ben Tzur, Jonny Greenwood, The Rajasthan Express, “Allah Elohim”
Il punto di incontro di tre culture diverse. Di tre diversi modi di pensare, vedere, vivere il mondo. Di intendere la musica. Oriente, medio-oriente e occidente che si incontrano ed influenzano a vicenda. Il confine che non segna quindi la distanza, la differenza, l’alternanza, ma che anzi diventa luogo di contatto, scambio, creazione. “Allah Elohim” è tutto questo e quindi è forse il punto più alto raggiunto da “Junun”, l’album nato dalla collaborazione tra il cantautore isrealiano Shye Ben Tzur, Jonny Greenwood dei Radiohead e il collettivo indiano The Rajasthan Express.
La canzone parla prima di tutto di religione: a contrario di quello che spesso ci racconta tristemente la storia presente, qui il Dio musulmano Allah e il Dio d’Israele Elohim non sono in conflitto, ma una stessa voce che unisce e accomuna i suoi fedeli. Ma oltre all’incontro di Islam e Ebraismo, “Allah Elohim” segna l’unione di altri confini: quello geografico, con le diverse provenienze dei musicisti (Inghilterra, Israele, India); e quello musicale, con la fusione del suono della chitarra elettrica, i tribalismi nelle percussioni e nei fiati, e il cantato arabo. “In any tongue I speak my language is one!” canta Shye Ben Tzur: esiste forse un messaggio più importante di questo, al giorno d’oggi?
(Enrico Stradi)
C.S.I., “Cupe Vampe”
Non più tardi di una decina di giorni fa Michele Serra ricordava il legame tragico tra l’attuale condizione politica europea ai tempi dell’ISIS e la guerra nell’ex Jugoslavia. Tre giorni prima il Tribunale penale internazionale aveva condannato Karadzic per il massacro di Srebrenica di circa 8mila musulmani di Bosnia. I nostri giorni sono ancora legati con un doppio filo a quella guerra che nessuno di noi volle vedere fino a che una bomba squarciò il mercato di Sarajevo, e un Clinton in odore di riconferma accelerò quelli che poi furono gli accordi di Dayton. Eravamo dalla parte giusta dell’Adriatico, quella in cui le persone potevano continuare normalmente la loro vita, e i C.S.I. furono tra i pochi che non si disinteressarono (lo fecero anche gli U2 sotto forma di Passengers con “Miss Sarajevo”) e che gridarono quasi in diretta il loro sdegno: “Cupe Vampe” è il racconto drammatico del rogo della biblioteca di Sarajevo, il luogo massimo di cultura di una città troppo importante sia per le vicende europee (si pensi solo all’assassinio di Francesco Ferdinando d’Austria che diede vita alla 1a guerra mondiale) che per il mondo orientale, di cui Sarajevo è sempre stata una culla.
Riannodare questi fili è fondamentale.
(Paolo Bardelli)
The Cure, “Killing An Arab”
Quando il riflesso del sole su qualcosa di metallico, sulla spiaggia bruciata e allucinata del magherb algerino, diventa per Mersault lo scintillio di un coltello nelle mani di un arabo, cinque colpi di pistola risuonano nel vuoto e affondano nel corpo dell’uomo disteso nella rena. Non è Mersault che spara, ma la meccanica di un momento assurdo, che vale meno di una suggestione o di una congettura sbagliata. È il momento clou de “lo Straniero” di Camus che Robert Smith riprende in “Killing an arab”, suscitando l’ira dei benpensanti dell’epoca. Ira, per certi versi, non gratuita, se leggiamo a fondo l’opera di Camus, in cui il protagonista è, lui stesso, straniero in una terra straniera con cui non entra mai in reale contatto. É l’alterità dell’arabo – intesa come distanza esistenziale – a servire il senso del breve, lucido romanzo di Camus e della canzone in questione. L’omicidio è sì gratuito, ma è qualcosa di più e di meno, è una reazione involontaria e annoiata, una suggestione, che si porta via la vita di un uomo in un atto di insensata gratuità. È questo l’innesco della meditazione esistenziale e filosofica che interroga i lettori, gli ascoltatori e Mersault stesso: la consapevolezza che la vita si spegne nel nulla, la vita dell’arabo o della madre del protagonista (il cui funerale è raccontato nelle pagine iniziali, anch’essa straniera al figlio), illumina una presa di coscienza, nel caldo glorioso e indifferente del Mediterraneo del sud. Mersault capisce così che, al di là del mare, della carne, della giovinezza, e, evidentemente, nonostante queste, la vita dell’uomo, l’unico essere che pretende di avere un senso, è un miraggio calcinato dallo scandalo del sole. E per questo non c’è Cura.
(Matteo Marconi)
Soap Kills, “Enta Fein”
Negli anni ‘90, finita la guerra civile, è stato sempre il Libano – più liberale rispetto ai vicini paesi mediorientali – a far emergere le prime pop-star moderne fornite di silicone, vestiti succinti e video tanto assurdi quanto espliciti. Di nuovo, se fate il nome di Haifa Wehbe a qualsiasi tassista mediorientale, vedrete immediatamente il suo sguardo perdersi in qualche languida fantasia.
Dalle rovine della guerra civile, però, è emersa anche una generazione di giovani musicisti che volevano scappare dagli orrori di quel conflitto. Una generazione che aveva molto da dire e da dirsi, ma che faticava a trovare un modo proprio per farlo. Bravissima Fairuz, tutto il rispetto per la musica tradizionale, ma era troppo limitante. Allo stesso tempo, non si poteva copiare quello che arrivava dall’estero. In un paese afflitto da una crisi identitaria endemica, quella musica non aveva radici.
E poi arrivarono loro. Basso profondo. Batteria elettronica. Synth Roland che accenna una scala orientale, simile al fraseggio di un flauto in una composizione sufi, la musica sacra-popolare araba che porta a ballare fino all’estasi mistica.
La voce che fa il verso a Oum Kalthoum e Feiruz, ma con un suono dark e malinconico che arriva diretto allo stomaco.
Base trip-hop e parole di una vecchia canzone d’amore araba. E’ questa “Enta Fein”, “dove sei”, la canzone simbolo dei Soap Kills. Il duo libanese di “trip-hop à l’orientale” che ha dato il via alla scena alternativa libanese. Una scena ricca di gruppi di musica elettronica, rock, indie, jazz-core e hip hop.
I Soap Kills si sono formati alla fine degli anni ‘90 e si sono sciolti a metà degli anni zero, ma hanno dato il via a un mondo underground libanese pieno di etichette discografiche, radio, locali e band.
(Alessandro Accorsi)
M.I.A., “Borders”
Sin dal suo esordio nel 2005 M.I.A e’ diventata il simbolo di un “meltinpot” targato nuovo millenio. Una multiculturalità orgogliosa fatta di lustrini, paiettes, mix (e remix) di sound e una buona dose di sfacciataggine. Tasferitasi a Londra in tenera eta’ per sfuggire alla guerra civile nello Sri Lanka, M.I.A (al secolo Mathangi “Maya” Arulpragasam) ha sempre avuto un rapporto molto personale con la “crisi” di emigranti e rifugiati in atto, e sebbene molti musicisti hanno sentito il dovere di esprimere la loro solo di recente, lei, per citare le sue stesse parole, è “the other type of artist—actually, this is who I am, this is where I come from, there are my people”. Diretto da essa stessa medesima, il video di “Borders” (singolo che anticipa l’uscita del nuovo album “Matahdatah”) è un quasi-testamento, una sfida diretta sopratutto ai media a all’immaginario popolare. Piramidi di persone, fiumi di uomini e barconi stracolmi in mare aperto (mancano donne e bambini per scelta, benchè siano appunto loro i “protagonisti” della reale migrazione). In scena, per la maggiore, sono persone raccolte dalla strada o incontrate nei campi profughi nel sud dell’India. Il tutto magistralmente coreografato con quel pizzico di esagerazione che firma ogni suo lavoro. Il video non passa inosservato cosi’ come le contraddizioni dietro (tipo, niente di tutto questo sarebbe potuto succedere senza i fondi della Apple Music). Ma cio’ che contraddistingue M.I.A (e il suo lavoro) sono sincerità e coerenza. Leggere qui questa intervista al Time per credere.
(Tea Campus)
The Clash, “Rock the Casbah”
Nel 2003, durante la cerimonia d’introduzione dei Clash alla Rock’n’Roll Hall Of Fame, Tom Morello dei Rage Against The Machine si lasciò andare a un appassionato ricordo su ciò che i Clash avevano rappresentato per lui e per la sua generazione.
A detta di Morello uno dei più grandi meriti della band era quello di “aver combinato un sound rivoluzionario con idee rivoluzionarie”. Certo, la musica impegnata non nasce con i Clash, ma furono loro i primi a unire rabbia giovanile e furore politico a un sound che all’inizio veniva chiamato punk, ma che presto riuscì a trascendere qualsiasi confine, musicale e non.
Pertanto non è difficile capire come fu proprio “Rock The Casbah”, estratta da un album dal titolo eloquente come “Combat Rock”, a diventare una delle canzoni più famose della band, nonostante inizialmente fosse considerata dagli stessi musicisti troppo “strana” per diventare una hit. La melodia si muove tra reggae e world music, il testo è una fiaba su un popolo arabo che sceglie di ribellarsi alla messa al bando della musica rock da parte dello sharif (richiamo esplicito a una legge di Kohmeini in Iran) e il video vede un mussulmano e un ebreo ortodosso danzare insieme al ritmo ska. Un brano contro la repressione, un brano contro la guerra, un brano contro l’odio e le barriere, un brano dei Clash, insomma.
Eppure il destino a volte è beffardo, e “Rock The Casbah” finì per diventare l’inno ufficiale dell’esercito americano durante la prima guerra del Golfo. La leggenda vuole che il grande Joe Strummer si mise a piangere quando glielo comunicarono. Forse ora, da lassù, lo rincuorerà un po’ sapere che il vero messaggio di questa canzone non è andato perduto.
(Stefano Solaro)
Litfiba, “Istanbul”
Parlando di confini è facile dimenticare quelle entità che congiungono realtà diverse. Da secoli affacciata sullo stretto del Bosforo Istanbul ricopre questo compito, collegando il continente europeo a quello asiatico ed ispirando nel corso del tempo centinaia di artisti affascinati dalla sua condizione di ‘porta dell’Oriente’.
Tra questi, una trentina di anni fa, anche il nostro Piero Pelù folgorato dalla sue suggestioni e in pieno periodo ‘orientalista’ (”Onda Araba”, “Versante Est”, la reinterpretazione della bowiana “Yassassin”) scrive una canzone destinata a diventare un classico dei Litfiba: “Istanbul”.
Introdotto da un sintetizzatore ‘80s e da un basso martellante, il pezzo comincia con un’invocazione in arabo (omaggio a “Luglio Agosto Settembre (nero)” degli Area?) per poi proseguire con una ballata dai toni cupi e con un testo altrettanto pessimista, dipingendo la metropoli turca come il luogo d’incontro mancato tra la cultura europea e quella orientale.
Guardando la situazione di conflitto attuale resa ancora più bollente dalla discutibile leadership erdoganiana, Istanbul è ancora una volta messa alla prova come porta tra due mondi. Speriamo solo che, al contrario della lirica dei Litfiba, non finisca per bruciare davvero.
(Matteo Mannocci)