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Se ci si aspettavano nuovi stravolgimenti, dopo cinque anni di silenzio, PJ Harvey ha smentito come sempre ogni previsione. La quarantaseienne musa del Dorset era tornata nel 2011 con l’eccellente “Let England Shake” che ha fatto riavvicinare vecchi fan e le ha aperto la strada a nuove platee, dopo i sussurri intimi e introspettivi dell’intenso “White Chalk”. Un’ulteriore prova di vitalità e ispirazione, un ritorno esplosivo alla melodia più immediata dei suoi primi anni 2000, con un gusto nuovo per le vibrazioni d’annata, del folk, del blues e del gospel, che ritornano nel nuovo album. E una rabbia inedita dai contenuti socio-politici, in quel concept crudo sulla Grande Guerra, la brutalità dei conflitti e una critica non troppo velata alla storica vocazione imperialista britannica.
Questo nono album in studio di Polly Jean segue la stessa scia del suo predecessore e guarda, non sono nelle sonorità, oltreoceano, e a nuovi mondi. Il disco è stato presentato con un’installazione in cui lei stessa diventa soggetto e oggetto dell’installazione, esposta al Somerset House mentre registrava il disco in una scatola di vetro a specchio. Al suo fianco ci sono i fedelissimi Flood, John Parish e Mick Harvey. E poi ancora Terry Edwards (già al lavoro con Nick Cave, Spiritualized Tom Waits), Mike Smith (tra i credits di Blur e Gorillaz), l’ex Bad Seeds James Johnston (oggi al comando dei Gallon Drunk) e Alain Johannes (collaboratore di Mark Lanegan, Queens Of The Stone Age, Arctic Monkeys). Nella pletora di polistrumentisti, in due brani, sbucano fuori gli italianissimi Alessandro Stefana, ai più noto come Asso (Guano Padano, Mondo Cane, Vinicio Capossela), ed Enrico Gabrielli (Calibro 35, Mariposa, ex Afterhours, oggi The Winstons).
Questa volta l’ispirazione nasce sul campo, dai viaggi in territori recentemente segnati da interventi militari, il Kosovo e l’Afghanistan. Da questi viaggi è nata una proficua collaborazione con il fotografo Seamus Murphy, portata a compimento nella raccolta di poesie “The Hollow of the Hand”. Il viaggio tra gli orrori della guerra si completa simbolicamente nella capitale dell’Occidente, Washington DC che diventa il crocevia del nuovo concept di PJ Harvey.
A partire dalla titletrack “The Community of Hope”, dove rispolvera quel piglio da Patti Smith degli anni 90, è ispirata, come del resto il titolo dell’album, a HOPE VI, il piano urbano di gentrification varato a Washington dal Dipartimento della Casa e dello Stato Urbano per riqualificare le periferie delle grande metropoli, attraverso la demolizione di interi quartieri popolari segnati dal degrado, e la costruzione di negozi, catene commerciali e nuovi condos di lusso. La sua critica è molto esplicita e non sono mancate le polemiche dell’ex sindaco del Distretto di Columbia Vincent Gray che l’ha paragonata, per le sue mistificazioni, al noto giornalista televisivo Piers Morgan. Washington DC, nel concept di PJ, rappresenta, invece, l’esempio dell’insuccesso della gentrification che ha creato nuovi ghetti, forzando lo spostamento delle comunità più in difficoltà in nuove aree di segregazione. Nella capitale americana, il fiume Anacostia (cui è dedicata una spettale e funerea ballad nickcaviana tra i momenti migliori della raccolta, “Anacostia River”) spacca in due la città. Da un lato del fiume, Capitol Hill e i palazzi del potere, dall’altro la criminalità diffusa e le condizioni di estrema povertà dei block del quartiere afro-americano di Anacostia. Una città ancora divisa in due tra la ricchezza delle strade di Washington Ovest e i quartieri degradati di Washington Est. Tra queste due aree si muove idealmente il racconto di Polly Jean. Da Anacostia alla sponda opposta del fiume, attraverso il Capital Mall dove sorgono i principali musei e i memorial che raccontano la storia degli Stati Uniti, delle sue guerre e delle sue conquiste sociali e culturali, fino all’area “Near The Memorials To Vietnam and Lincoln”, ballad dark e al tempo stesso retrò scossa da quegli acuti fatali e ammalianti che l’hanno resa celebre.
E poi “The Ministry of Defence”, un altro momento di altissima ispirazione, graffiante e ancora figlio delle sonorità di “Let England Shake”, tra cori da piantagione e l’apparizione mistica del poeta dub giamaicano Linton Kwei Johnson a offrire i suoi versi con la sua voce. “The Hope Six Demolition Project” accoglie e avvolge le tradizionali intuizioni di PJ trascinandola nel cuore delle radici della musica americana. Come, ancora in “Chain Of Keys”, in “Medicinals” e “The Ministry of Social Affairs”, dove tra fumi di sax morphiniano (il sax lo suona lei in entrambi i brani, negli altrii si alternano i diversi guest menzionati sopra) spicca sempre il suo timbro inconfondibile, mai stanco e segnato dall’età, sempre in grado di colpire al cuore. “A Line In The Sand” suona forse come già sentita, ma è difficile restarne indifferenti. PJ Harvey ha trovato la sua dimensione, non sembra voler stupire ancora, dopo oltre due decenni di onorata carriera. Così “The Orange Monkey” e “The Wheel”, uno dei singoli che hanno anticipato il disco, suonano con la freschezza di “Stories From The City, Stories From The Sea”, uno degli album più a stelle e strisce del suo repertorio, riletto ai tempi di “Let England Shake”. Per il resto la voce non sempre prevale né vuole prevalere. Rendono molto di più i momenti corali, valorizzati dalle seconde voci che danno quel mood blues e ipnotico ai brani.
Solo la conclusiva “Dollar, Dollar” lascia spazio alla voce di Polly Jean. Gli strumenti restano sullo sfondo, lei sfodera l’ammaliante lirismo di “Is This Desire?”, con tutti i suoi antichi spettri, e, infine il sax evocativo di Terry Edwards la accompagna nella buia notte di Washington.
80/100
(Piero Merola)
21 Apr 2016