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Ieri sera. Il primo film a essere stato presentato in concorso è “Sieranevada”, nuova fatica di Cristi Puiu, tra i nomi di punta del cinema rumeno contemporaneo insieme a Cristian Mungiu, Corneliu Porumboiu e Radu Muntean; con questo film Puiu conferma in tutto e per tutto una poetica espressiva fatta di piani sequenza nervosi, gestiti con la macchina a mano e in grado di creare una continua dialettica tra campo e fuoricampo. La storia, quella di una famiglia che si riunisce per commemorare il padre/marito/nonno, morto quaranta giorni prima, si presta alla perfezione per lo scandaglio umano di Puiu, interessato a svelare le ipocrisie, le paure e le idiosincrasie della società rumena (ed europea): si agitano spettri di Charlie Hebdo e delle altre grandi tragedie provocate dal terrorismo, in “Sieranevada”, potente dimostrazione di autorialità che nonostante la durata non proprio ridotta – quasi tre ore – riesce a commuovere e, perché no, persino divertire il pubblico.
Oggi la mattina si è invece inaugurata con “Fai bei sogni”, il film che Marco Bellocchio ha tratto dal romanzo autobiografico di Massimo Gramellini: titolo d’apertura della Quinzaine, ha attirato nella sala del Marriott un numero esiguo di persone – e anche due classi del liceo locale! – vista la contemporanea proiezione al Grand Theatre di “Rester vertical” di Alain Guiraudie, che pochi anni fa fece parlare di sé per “Lo sconosciuto del lago”. Peccato, perché Bellocchio sfodera una sorta di anti-biopic in piena regola, annullando qualsiasi celebrazione del suo protagonista e tratteggiando una descrizione della vittoria dei mediocri sul valore. In questo senso la sequenza della risposta a un lettore de La Stampa appare a dir poco paradigmatica: giocando una volta di più con l’immaginario cinematografico e soprattutto televisivo (Belfagor, Canzonissima, il campionato di calcio), Bellocchio mette in scena quaranta anni della vita di un uomo che deve tutto, nel bene e nel male, al fatto di aver perso la madre quando era solo un bambino. Il resto, in una società vacua e priva di punti fermi razionali, è nulla. Qualche scivolone nel cattivo gusto non compromette la lettura del film, anzi ne amplifica paradossalmente la forza espressiva. Geniale e fuori da ogni struttura preordinata.
Sempre questa mattina è stato poi presentato alla stampa “L’ultima spiaggia”, documentario codiretto da Davide Del Degan e Thanos Anastopoulos; ambientato in uno stabilimento balneare triestino che ancora divide gli uomini dalle donne, “L’ultima spiaggia” si muove nel solco di “Sacro GRA”, il film che fece vincere il Leone d’Oro a Gianfranco Rosi nel 2013. Molte chiacchiere, dunque, qualche personaggio bizzarro e un profluvio di parole ora incentrate sul quotidiano (chi fa chi, chi è morto, chi è riapparso in pubblico) ora sul politico, sui tempi che furono e su quelli che saranno. La metafora – i muri che dividono sono forieri sempre di disastri – è evidente e forse anche un po’ semplice, la fauna esplorata interessante ma il film, nella versione presentata alla Croisette appare davvero troppo troppo lungo, visto che supera le due ore. Al film gioverebbe senza dubbio una sforbiciata, per rendere meno pedante il discorso e dare forza maggiore a quello che avviene sullo schermo. Su “Personal Affairs” della palestinese residente in Israele Maha Haj e “I, Daniel Blake” di Ken Loach vi intratterò domani. La cena chiama…