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“Fables Of The Reconstruction” è il primo album di transizione dei R.E.M.: come tale, è pieno di spunti interessanti, di tensioni creative e voglia di osare a costo di sacrificare un poco della leggerezza degli esordi.
Mossi dalla voglia di ampliare le proprie prospettive, dopo “Reckoning” i R.E.M. individuano in Joe Boyd, il veterano produttore di Nick Drake e Fairport Convention, l’uomo a cui affidare il terzo passo discografico (per la cronaca, Boyd era all’epoca impegnato anche con i 10,000 Maniacs, legati ai R.E.M. dalla relazione tra Natalie Merchant e Michael Stipe). All’inizio del 1985 i nostri si trasferiscono a Londra per registrare negli studi di Boyd: l’inverno e il soggiorno londinese si riveleranno ardui da sopportare. Il titolo dell’album, che verrà pubblicato a metà anno, è testimonianza sia del periodo difficile passato che del cambiamento in corso: i mesi londinesi, lontani dal southern comfort della Georgia, hanno fiaccato i R.E.M. fino a spingerli sull’orlo dello scioglimento; le Fables invece manifestano una nuova vena narrativa rispetto ai testi impressionistici e notoriamente ermetici degli esordi.
Altra novità interessante è che ciò che raccontano i R.E.M. sia il Sud degli USA, proprio nel momento in cui c’è un oceano a separarli da esso: colmando la distanza con ricordi e musica, Stipe e soci costruiscono un Sud mitico di “mappe e leggende”, poco nostalgico, più spesso cupo, misterioso. La vena evocativa che li segue dall’inizio si esprime qui nell’invenzione di una homeland di sogno/incubo, in cui attraverso personaggi e storie la band ricostruisce il legame alle proprie esperienze (sul retro della copertina il titolo è rimescolato in “Reconstruction of the Fables”).
Il suono a sua volta abbandona l’ariosità di “Murmur” e “Reckoning” e si ingrossa, si incupisce; vengono provate nuove soluzioni negli arrangiamenti, con risultati non sempre esaltanti, ma spesso comunque affascinanti. Già sull’iniziale “Feeling Gravitys Pull” si capisce come gli arpeggi byrdsiani fatichino a sbocciare, inceppandosi contro qualcosa di duro, freddo: la chitarra di Peter Buck sembra congelata in una falsa partenza perenne che alterna un nervoso strumming smorzato a tre note dal sapore minaccioso.
L’essere invischiati in qualcosa da cui non si riesce a sfuggire sembra essere uno dei leitmotiv di “Fables”, esplicitato nei due singoli dell’album: “Can’t Get There From Here”, uno degli episodi più vivaci con un inedito piglio funky e arrangiamento di fiati, usa una frase idiomatica del Sud che significa “non so come farti arrivare al posto che cerchi”; “Driver 8”, spinta da un potente, memorabile riff, parla dei treni che attraversano le campagne e le paludi, diretti verso altrove mentre attorno a loro le persone restano a seguire le proprie traiettorie. Invischiate in miserie quotidiane ma incapaci di fuggire, come i braccianti raccontati in “Green Grow The Rushes”, prigionieri di una diffidenza mascherata da saggezza di strada (la tenue “Good Advices”).
Sono appunte le persone che intrecciano la trama delle “Fables”, le loro vite attorcigliate a narrazioni e ricordi come rampicanti sulle vecchie verande delle case in legno. Trasfigurati dal racconto diventano spauracchi come il sinistro “Old Man Kensey”; freak arroccati nella fortezza della propria mente come il protagonista della esaltante “Life And How To Live It”, fantasmi sbiaditi di un’esistenza come il “Wendell Gee” della malinconica ballad finale.
E’ attraverso questi spunti che abbiamo i primi esempi di quello che chiamerei l’umanesimo dei R.E.M.: di qui in poi Stipe e soci saranno sempre più interessati a fotografare frammenti di vita di persone reali, conosciute personalmente o attraverso racconti e ricordi, per trarne un sentimento di empatia universale, di comunanza umana che trascende l’aneddoto per parlare dei fardelli e le aspirazioni che ognuno si porta dietro. Sarà questo uno dei filoni portanti dei capolavori della band a cavallo tra i due decenni 80-90.
75/100
(Stefano Folegati)
21 novembre 2016