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Questo report live è perfettamente inutile. Che senso ha scrivere di qualcosa che è piaciuto, e piaciuto molto? Boh, facciamo in modo che serva e diamoci da fare per essere almeno un po’ critici. Che poi in effetti qualcosa da appuntare c’è, e c’è eccome e l’hanno notata tutti. Alla fine tireremo le somme.
All’Alcatraz la serata inizia sonnacchiosa, alle 20,30 non c’è ancora praticamente nessuno e, sapendo che i milanesi sono sempre molto precisi nel far iniziare i concerti alle 21 per andare a letto presto e produrre tanto il giorno seguente, non è una gran bella partenza. Eppoi c’erano ancora biglietti disponibili alle casse, il tutto denotava una parvenza di strano disinteresse per un act in unica dose di una tale band con album in piena promozione. Accensione della serata a metano, e di conseguenza gloria rimandata ad un’altra volta per il sig. Peter Von Poehl, artista d’apertura la cui mezz’ora è stata solo di – si può dire – semi-opportunità: lo hanno ascoltato in pochi un po’ perché distratti dai convenevoli dell’arrivo al locale, ciao come stai? e solite menate del genere, e un po’ perché oltre ai distratti c’erano solo le bariste. Armato unicamente di chitarrina, voce nasale accattivante, una discreta dose di sex-appeal: lasciamo un’altra chance a Peter Von Poehl senza però perderci il sonno se non lo si farà.
Ore 21,15, gli Air sono sul palco e sgarrano solo di un quarto d’ora sui programmi svizzeri dei milanesi. Ci si sofferma sugli orari perché sono importanti. Gli Air attaccano quindi e dimostrano quanto quel non detto che permea “Pocket Symphony” sia proprio un momento felice che attraversa il gruppo. Pochissime sbavature, band dietro di loro precisa e che riempie gli spazi in maniera intelligente, aplomb da consumati gentlemen: i finali di “Talisman”, “Run”, “People In The City” fanno lo stesso effetti di umidi baci sul collo di una languida fanciulla. Pochi episodi dell’ultimo cd (una efficace “Once Upon A Time”, “Mer Du Japon” da corsa, velocizzata parecchio, “Napalm Love” un po’ più piatta che su disco e la distratta “Left Bank”, che Godin dedica a Parigi) ricordano che è il “Pocket Symphony Tour”, ma gli Air sembrano disinteressarsene. Largo ai classici capisaldi e cavalli di battaglia di “Moon Safari”: “Sexy Boy”, “Kelly Watch The Stars”, “Remember” e il conclusivo usuale bagno di ipnosi maniacale di “La Femme D’Argent”, oltre alla già ricordata “Talisman”. Nel mezzo una esaltante, come al solito dal vivo, “Don’t Be Light” e le composte versioni di “Venus” e “Cherry Blossom Girl”, quest’ultima finalmente suonata come si deve (le versioni che si erano sentite nel precedente tour erano come orfane…), oltre alla classica “Playground Love” strumentale, una melodia che tutti i film anelerebbero ad avere come colonna sonora.
Poi il misfatto: concerto finito alle 22,35, allorché i fans estasiati sì ma coglioni no si mettono le loro ditina in bocca e fischiano ben benino. Niente da fare, gli Air sono fighetti nell’animo e non ritornano sul palco.
Questa è l’unica nota con biro rossa che si faceva intuire all’inizio, però (a) non dite che non lo sapevate che gli Air sono fighetti e (b) meglio un’ora e venti sublime che due ore e mezzo di noia. E grazie!, direte voi lamentandovi dell’ovvietà, e avete ragione.
Però aggiungo solo che: nel 2001 al Vox gli Air erano stati sperimentali ma a tratti ingenui, nel 2004 proprio all’Alcatraz di un tedio preoccupante tranne sparuti guizzi e nella stessa estate a Ferrara emozionanti ma con possibilità di migliorare nella resa live. Ora sono davvero ok, e se la prossima volta suoneranno anche mezz’ora in più cosa volete di più, anche la macchina a rate?