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Per la fortunata serie “ho un brutto presentimento ma cercherò di ignorarlo”, fin troppo popolare fra noi che seguiamo l’hip hop, finisce che la seconda tappa del tour italiano di Madlib cambia location. Lo Spazio Maderna, cornice che fonti attendibili mi avevano assicurato essere perfetta per un evento di questo tipo, defeziona infatti all’ultimo minuto: il concerto trasloca al 40/40, locale milanese di cui non riesco ad avere notizie, anche perché abbandono le mie affannose ricerche quasi subito, per pigrizia.
A colmare le mie lacune investigative ci pensa comunque il flyer di presentazione della serata, riuscendo nell’encomiabile impresa di inanellare ben tre errori su un totale, chessò, di cinque parole e mezzo: “dj Mad lib” anziché Madlib e basta, “J- Rock” anziché J-Rocc, “from NY” anziché from LA. Il suddetto flyer presenta poi alcune parole chiave ( “wine bar”, “r’n’b concert” ma soprattutto l’enigmatico “estrazione di due weekend in barca a vela”) che, attraverso un semplice ragionamento abduttivo per cui non mi sembra il caso di scomodare Sherlock Holmes, permettono di indovinare la tipologia del locale senza tema di smentita: sembra il classico locale strafashion alla milanese con velleità musicofile. Benone.
Rinunciare al concerto di Madlib? Nemmeno per scherzo. E questo anche se non so bene cosa aspettarmi dal suo dj set, visto il curriculum del nostro: Madlib è polistrumentista, deejay, rapper, produttore; ha fatto dischi jazz, hip hop, ha rivisitato classici funk e reggae; ha almeno cinque alter ego (Quasimoto, rapper che ottiene pitchando la sua voce in modo da ottenere una specie di Alvin dei Chipman strafatto d’erba, e i suoi quattro compagni d’avventura nello Yesterdays New Quintet, jazz band che si è inventato di sana pianta e di cui ha rilasciato sia l’album collettivo che i cinque dischi solisti) e in definitiva potrebbe fare qualsiasi cosa. Dato che io tifo spudoratamente per Quasimoto e le sue mirabolanti avvenutre, decido che è il caso di informarmi meglio.
Scrivo dunque una mail all’agenzia di booking chiedendo se Madlib ha intenzione di cantare, almeno un po’; loro mi rispondono che è in programma un dj set di tre ore, ma che un microfono glielo avrebbero fatto trovare lo stesso, ché non si sa mai. Mi sono tornate alla mente le parole di un’intervista letta qualche tempo fa, in cui il nostro diceva più o meno che i live non gli interessavano, e che avrebbe preferito piuttosto starsene a casa a fare musica e a fumare dei joint, e ho pensato: benone.
Ma vorrei alleggerire l’insostenibile atmosfera di suspence che si andava creando con una rivelazione: il brutto presentimento, in questo caso, non ha ragione di sussistere. L’esibizione di Madlib e J-Rocc è di quelle che riconciliano con la musica e con le ingiustizie della vita, su cui però ho intenzione di dilungarmi ancora un poco.
Il locale, innanzitutto, è esattamente come lo avevo immaginato. Vi basti pensare che esistono due ingressi separati, uno destinata agli avventori abituali del locale e l’altro specifico per il concerto. Nel primo (in cui una fila vera e propria non c’è) sfilano signorine in minigonna e tacchi, con tanto di accompagnatori presumo facoltosi, che non fanno nemmeno i tempo ad avvicinarsi alla porta e ai pittbull vestiti da uomini d’affari che la presiedono e vengono già inghiottite dentro; dal secondo parte invece una fila piuttosto lunga, composta da noi comuni mortali che ci siamo fatti i chilometri per Madlib e che dovremo aspettare ancora un po’ – chi, cosa e perché non è dato sapersi – per entrare. E, manco a dirlo, le percentuali di braga nella colonna sono bulgare e desolanti.
Finalmente entriamo e inizio a innervosirmi veramente perché c’è la prova bancone, determinante per gli esiti della serata almeno quanto la selecta di Madlib e J-Rocc. Mi avvicino alla barista più carina con un sorriso.
– Vorrei un Long Island, grazie.
– Dieci euro.
Scucio senza fiatare. Dopo una mezzoretta la scena si ripete.
– Vorrei una birra, grazie.
– Dieci euro.
Ci penso su un attimo e trasformo la mia ordinazione in un secondo Long Island. Dopo una mezzora sono disidratato e ritorno al bancone.
– Una bottiglietta d’acqua, grazie.
– Dieci euro.
– Come, scusa?
– Dieci euro.
In quel momento penso che le alternative sono due: o la politica del locale sulle consumazioni sfugge ad ogni logica, oppure la barista in questione è appena arrivata in Italia e ha imparato solo quelle due parole (dieci euro), il che potrebbe portarla a situazioni di malinteso – e non necessariamente divertenti – nel caso volesse tornare a casa in autostop. Fortunatamente la signorina, informata dalla mia espressione stupefatta del dilemma interiore che mi sta consumando, specifica che se voglio un bicchiere d’acqua lo posso avere gratis, e un barista suo collega me lo porge come se stesse elemosinando un barbone.
Ma torniamo alla cronologia della serata e all’ultima ingiustizia di cui vorrei lamentarmi. Sorseggiando il primo Long Island, ancora ignaro di come finirà la situazione drink, mi dirigo insieme ai miei compagni di concerto verso la pista principale. Lì troviamo una selezione hip hop dannatamente commerciale ma che potrei accettare, se l’intento fosse quello di muovere un po’ di culi e di animare l’atmosfera per l’evento. Le occhiate indignata e sardoniche di alcuni b-boy di lungo corso suggeriscono però che c’è qualcosa che non va; e quel qualcosa si palesa ben presto nelle sembianze dei quattro uomini al microfono. Non si tratta di vocalist sovreccitati che esagerano nel loro ruolo, come mi era sembrato lì per lì; sono quattro cefi usciti da X-Factor dell’anno scorso, o almeno così mi viene detto, che eseguono cover di pezzi americani strafamosi (e nemmeno troppo ricercati: ne infilano tre in stecca di Willi Smith) e ammiccano e gongolano e ringraziano il pubblico come se avessero veramente qualche merito in quello che stanno facendo. I problemi secondo me sono diversi: il principale è che non ha senso fare la cover di un pezzo hip hop, non solo da un punto di vista culturale, ma soprattutto da quello strettamente tecnico: se canti su una base che non hai fatto tu, e canti strofe che non hai fatto tu, in una lingua che tra le altre cose non è nemmeno tua, non stai facendo una cover. Chiamalo, se vuoi, karaoke.
E, così per inciso, cantare la parte di Faith Evans di I’ll be missing you occhieggiando sexy alla prima fila è la cosa più vicina all’outing che mi sia capitato di vedere durante un concerto hip hop, poi fate vobis, carissimi.
Ma basta lagnarsi!
E’ il momento di parlare dell’esibizione di Madlib. E di J-Rocc. Perché se Madlib è il nome di richiamo della serata, J-Rocc ha nello show un ruolo ben definito e tutt’altro che marginale: è lui il deejay vero e proprio, quello che fa le cose come andrebbero fatte secondo manuale ma molto meglio di come le sentite fare di solito; la selezione è curata, il mixaggio ineccepibile, le tecniche al giradischi sfoggiate con un equilibrio raro e apprezzabile nel dosare i virtuosismi onde evitare che diventino fini a se stessi.
Madlib è invece uno che la musica la crea (lo so, anche il dj è un musicista, ma avete capito cosa intendo dire…) e come tale si comporta in consolle: le sue produzioni non hanno molto di convenzionale né di ballabile, ma i bassi caldi, sporchi e distorti che fanno da filo conduttore ai primi pezzi della performance (che mi dicono venire per la gran parte dal volume indiano di Beat Konducta) hanno qualcosa di ipnotico e alienante, le casse friggono come strutto e il suono cola nelle orecchie che è un piacere. Se l’impronta funk della selezione è una sorpresa piacevole, è l’alternanza tra le due idee di dj set (quella di J-Rocc e quella di Madlib) dello show a renderlo unico. E pazienza se Madlib non prende nemmeno in considerazione l’idea di rappare: bastano le due chicche inedite di Madvillainy, lanciate così senza presentazioni né niente, ad appagare noi talebani dei 94 bpm, che esplodiamo letteralmente quando l’impianto suona “The official” di Jaylib.
E il momento migliore dell’esibizione è senz’altro quello del call-and-response fra Madlib e J-Rocc, una sorta di dialogo sonoro fra i due che nel frattempo sghignazzano come alle peggio battute da bar. Come a dire: stiamo facendo musica, vi stiamo facendo ballare, ma soprattutto ci stiamo divertendo, signore e signori.
E il punto è questo: loro si stanno divertendo, noi pure, quindi siamo a posto così.
Lo dimostra la sessione interminabile di autografi a fine concerto, lo dimostra il diario di viaggio presente sul sito della Stones Throw: fa piacere sapere che, per una volta, noi italiani non si fa la figura dei cioccolatai ma degli appassionati competenti. Benone.
(Fabio Varini)