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C’è stato un periodo, in questo decennio, in cui è emersa in modo prepotente una tendenza psichedelica che ha portato certezze in questo mondo che certezze non ha. Se però nel primo lustro il pallino è stato in mano soprattutto a band d’oltre Oceano, tra Deerhunter, MGMT e roba più pesante come i Black Angels, bisogna capire se a partire da album importanti come “Sun Structures” (2014) dei Temples e “Hypnophobia” di Jacco Gardner anche l’Europa (e soprattutto la Gran Bretagna, ovviamente) torna a far sentire la sua voce in questo campo.
I Toy non sono al debutto, anzi, questo “Clear Shot” è il loro terzo disco dopo quel “Join The Dots” (2013) che aveva confermato il buon sentore dell’omonima prima prova discografica, ma è con questo album che il gruppo inglese può lasciare un’impronta importante, direi quasi imprescindibile, in quel trend psichedelico a cui si accennava all’inizio. L’abbiamo scritto anche nella nostra cover di Novembre 2016, dedicata a loro: l’arrivo del tastierista Max Oscarnold dei The Proper Ornaments al posto di Alejandra Diez, che ha lasciato la band per motivi personali sul finire del 2015, ha evidentemente contribuito a creare un’alchimia straordinaria se in soli 12 giorni il quintetto di Brighton è riuscito a registare un album così seminale. E questo termine non è usato a caso: “seminale” significa qualcosa che – in quanto seme – garantisce la continuità della vita, e i Toy sono proprio quel trait d’union con la psichedelia inglese del passato che si ripropone qui in altre vesti, ma con immutato fascino.
L’oscuro singolo “Fast silver” aveva fatto capire che non c’era spazio per troppa leggerezza, caratterizzato com’era – e com’è – da un incedere fosco e oppressivo tipicamente autunnale con qualche respiro negli arpeggi pre-ritornello e in un chorus che schiude un piccolo raggio di sole. Il resto dell’album si mantiene principalmente su quel registro, con il capolavoro “Clouds That Cover The Sun” a tirare le fila di una lezione pinkfloydiana recitata a memoria ed asciugata per renderla contemporanea, e altri brani di una qualità sopraffina come “Jungle Games” o l’iniziale “Clear Shot” che spingono in quella direzione. Ma vi sono anche sfumature maggiormente cinematografiche in brani come “Spirits Don’t Lie” e “Cinema” che ampliano lo spettro delle sensazioni; lo stesso Tom Dougall ha infatti dichiarato di essersi ispirato alle musiche di Bernard Herrmann (che per chi non lo sapesse ha scritto molte colonne sonore dei film di Alfred Hitchcock, “Psycho” su tutte, e altri registi come Orson Welles, François Truffaut, Brian De Palma e infine “Taxi Driver” di Martin Scorsese), di John Barry (compositore di vari 007) e di quel Ennio Morricone che non ha bisogno di specifiche. Un album dunque di ampio respiro, in cui non mancano alcuni episodi più pop come “I’m still believing”, segnata da evidenti echi dei Joy Division, o progressivi dal piglio kraut (“Dream Orchestrator”), che più si ascolta e più trasmette un chiaro messaggio creativo.
Non solo “Clear Shot” non potrà essere ignorato nelle classifiche di fine anno, ma in più sarà un album attraverso il quale annotare l’eterno farsi e disfarsi di quel filo conduttore di quella psichedelia che tanto amiamo. Una psichedelia sobria, dalle tinte garage, insomma, una psichedelia di oggi. Europea, il che non guasta.
86/100
(Paolo Bardelli)