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Qualche volta si sbaglia. Anzi, più di qualche volta. Siamo fallaci, non è il caso di disquisire oltre su questa caratteristica umana, l’importante – verrebbe da dire – è fare ammenda. Su Alice Jemima avevo parzialmente errato: in una top 7 settimanale la affiancavo idealmente a Empress Of, precisando però l’assenza dell’“irruenza da dancefloor” dell’artista losangelina. Per fortuna questo giudizio erroneo – basato sull’ascolto del solo singolo “Electric” – era mitigato anche dalla specifica successiva (“con una delicatezza naturale che non è acqua e che la porta in territorio primi XX”) che si conferma anche dopo l’ascolto di tutto l’album.
Perché sì, l’album omonimo di Alice non ha nulla a che fare con Empress Of: mentre la producer americana sprizza di adrenalina notturna, di bit e di sudori ed amori da discoteca, Alice pare un’educanda di età vittoriana. La sua non è neanche elettronica, è puro pop (con striature elettroniche) morbido, non tagliente. L’approccio complessivo del disco porta in territori post-Morcheeba, tipicamente inglesi così come è classicamente britannico il percorso della Jemima che a 14 anni, nelle esperienze scuola-lavoro, riesce a farsi mandare a fare uno stage non in un’azienda o una software-house, bensì al Festival di Glastonbury. Ed è proprio il fondatore di un altro classico festival d’oltre Manica – il Bestival dell’Isola di Wight – a scoprirla (Rob da Bank, boss della Sunday Best Recordings).
Su queste basi – e dopo l’EP “Liquorice” del 2016 – Alice Jemima arriva dunque al presente album di esordio che è piacevole, ma purtroppo nulla di più. Alla fine dei plurimi ascolti solo una patina di polvere sottile si posa sulla nostra anima musicale, strato che scivola via immediatamente non appena si passa all’ascolto di qualcosa di più graffiante.
Empress Of, quand’è che torni?
60/100
(Paolo Bardelli)